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Bosco, Gilberto
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Gilberto Bosco (Torino 1946) ha compiuto gli studi musicali a Torino, frequentando in seguito i Ferienkurse di Darmstadt. E’ titolare della cattedra di Armonia, Contrappunto, Fuga e Composizione presso il Conservatorio di Torino. Ha insegnato Teoria Musicale al DAMS di Torino.
Sue composizioni sono state premiate in concorsi nazionali ed internazionali, nonché eseguite in molte sedi di prestigio, tra cui il Teatro alla Scala, il Teatro Comunale di Firenze, la Rai di Torino e di Roma, Settembre Musica, l’IRCAM di Parigi, la Fondazione Gulbenkian di Lisbona, l’Académie de France di Roma, il Cantiere d’Arte di Montepulciano. 
All’interno della sua produzione, hanno uno spazio di rilievo i lavori in cui viene affrontato il problema del rapporto con il testo. Da Cantata del 1984, in cui vengono intonati frammenti da Le Bateau Ivre di Arthur Rimbaud, al recente Cantico del Gallo Silvestre, cantata terza su testo di Giacomo Leopardi; dalla lontana Dedica, che utilizza frammenti di Gaspara Stampa, ai più recenti Zwei Brecht-Lieder, passando per altre composizioni su testi di Saba (Lettura), Tennyson (O Sorrow) e Pavese (Il mattino): il tema di come un testo possa suggerire e determinare, per simpatie e tradimenti, strutture formali e procedimenti compositivi, è stato affrontato in molti modi e sotto diverse prospettive. L’ultimo esempio è un lavoro per dodici strumenti, privo di testo se non virtuale: il recentissimo Fumo e cenere, provocato dalla lettura di alcune e-mail scritte da cittadini di New York durante l’11 settembre 2001; forse una conclusione, seppure provvisoria, di questa lunga serie. 

Compito, scomodo destino, fatica d’arte o d’artigiano, impegno etico e intellettuale, comporre è per Gilberto Bosco una questione di Mestiere e di Maestria, un impegno arduo una volta che la dissoluzione dell’avanguardia post-weberniana ha lasciato eredità pesanti, una volta che ripensamenti e riflessioni sono volti alla focalizzazione della direzionalità, presunta, postulata (o ancora in predicato) della musica, oggi.
Tra i compositori dell’ultima generazione Bosco è forse uno dei pochi che hanno saputo superare, all’insegna di una visione altamente morale del far musica, le angustie delle polemiche e delle querelles che popolarono le vicende musicali del decennio 1975-1985.
I piccoli grandi scontri che hanno percorso l’ambiente un poco d’élite della musica contemporanea e che sono rimbalzati su quotidiani, settimanali e riviste hanno visto contrapposte due posizioni radicali e a tutta prima inconciliabili: i resti delle avanguardie del secondo dopoguerra e un manipolo di giovanissimi impegnati in clamorose opere di spezzamento delle catene ideologiche poste dalle suddette avanguardie; tertium non datur, si diceva, almeno ad ascoltare dichiarazioni o musica in pubbliche occasioni. Tant’è che qualcuno ha poi provato a far altro: a riflettere; non solo sui cimiteri della Storia, ma pure su quelli, molto più intimi e quotidiani – e perciò forse più importanti ancora – della Memoria.
Memoria e Nostalgia, lo sguardo carico di pietas col quale ci si volge al passato, sono così per Bosco, autore di alcune partiture ‘manifesto’ degli ultimi anni, i lidi ai quali la cultura moderna, nel suo incessante traslare (ecco un altro motivo tipico del patrimonio intellettuale dell’Occidente: l’idea di Viaggio), è giunta. Ma di fronte a questi temi da svolgere, la posizione di Bosco non è ‘passiva’, anzi è colma di simpatia e di humanitas: la sua Nostalgia ha in sé un altissimo contenuto etico che rappresenta già di per sé, prima ancora degli esiti musicali, una sapiente via d’uscita dalle esperienze e dalle pastoie ‘re-ideologizzanti’ della trans-avanguardia che hanno poi riproposto il virus dell’intolleranza. L’Io (che è Memoria e Storia insieme) funge da catalizzatore nei confronti del passato e si interroga sulla necessità e sulla sostanziale legittimità del porsi la questione del ‘ritorno’ al termine del ‘viaggio’. Il Ritorno, la Nostalgia vengono, a partire da codesta riflessione, volti in Desiderio. Volontà e necessità di capire (di comprendere in sé) il passato, semplicemente interiorizzandolo: facendolo proprio. Si tratta, ovviamente, di una via rischiosa e costellata di tranelli, di incertezze, di equilibri sempre pronti a mancare, ma i risultati possono essere estremamente ‘poetici’, ‘umani’, nel senso più vasto del termine: come, per esempio, nella Cantata o in Serenata III
E non a caso la mappa delle composizioni di Bosco vede in posizione strategica, negli ultimi anni, i lavori vocali: facendo centro sulla Cantata e su Serenata III, partiture del biennio 1984/85, troviamo precedentemente Dedica, su testi di Gaspara Stampa, ed Espressivo, un lavoro ancora del 1978 che risente delle tecniche legate in qualche modo ai madrigalismi delle passate avanguardie, pur in un ambito di sostanziale recupero dell’espressività, appunto.
La straordinaria lucidità del discorso ‘boschiano’ ha raggiunto in questi brani-fulcro una fusione dinamica con l’elemento espressivo, grazie ora ad una lunga e sofferta gestazione, ora ad una griglia strutturale sorvegliatissima ma libera nelle sue scelte. Sono punti di arrivo, di riflessione dopo un percorso: codesta riflessione coinvolge non tanto il soggetto quanto l’oggetto. L’artista dunque non parla di sé, bensì parla dell’oggetto della sua arte, la musica, attraverso la musica stessa – che è poi l’unico modo sensato. Ne segue il viaggio, sia esso Storia o Memoria, o entrambe le cose insieme. Ecco allora l’importanza assoluta del rapporto tra linguaggio musicale e linguaggio verbale, tra testo e musica, insomma, con le ‘frizioni’ conseguenti. Dalla suggestione de Le Bateau Ivre di Rimbaud, viaggio intimo del poeta e metafora, per Bosco, dell’iter compiuto dalla musica negli ultimi cent’anni di storia del pensiero, a quell’O ew’ge Nacht, wann wirst du schwinden? (“O notte eterna, quando finirai?”) tratto da Il Flauto Magico mozartiano, testo-pretesto della Serenata III.
Dopo la Serenata III troviamo l’Interludio, l’Aria delle carte e, in ultimo, l’Allelujah. Attorno a questo fulcro ruotano altri filoni; particolarmente cospicuo quello, mai esaurito, della musica strumentale, dai ‘lontani’... c’est la clarté vibrante… In Nomine, all’archiviazione dei moduli tipici della Neue Musik in Again, fino al primo gruppo di SerenateSerenata I II (inframmezzate, non a caso, da un Notturno). E se le Serenate costituiscono una ‘serie’ nella quale comunque la Serenata IIIrappresenta altresì, per la sua natura specifica, un punto d’incrocio con il filone vocale, ecco che appare, a partire dal 1983, la ‘serie’ degli Improvvisi (Improvvisoper clarinetto e pianoforte, Improvviso a cinque per flauto, violino, viola, violoncello e arpa, Tre improvvisi per contrabbasso, Sesto improvviso per clarinetto, viola, violoncello e pianoforte) nei quali gli automatismi della memoria, automatismi ben consci nella parabola storica dell’improvvisazione, e che mettono in diretto rapporto, fino alla ‘coincidenza’, compositore ed esecutore, si sostituiscono criticamente agli automatismi dell’Avanguardia.
Ancora una volta è la Memoria (a braccetto dell’immaginazione) a giocare un ruolo essenziale nella definizione della poetica di Bosco; così la memoria della melodia, la riflessione su questo elemento, proprio nel brano intitolato Melodia, viene ripresa, mediata dal tempo e dalle esperienze maturate, nell’Aria delle carte (Varianti a Melodia) e nel Tempo di quartetto (Altre varianti a Melodia) con un procedimento di decantazione e arricchimento del materiale orizzontale che trasforma il concetto di sviluppo e/o variazione in un vero virtuosismo dell’intelligenza. Pure s’assapora l’amaro di un che di pessimistico, di un qualcosa di mortale in codesti brani.
Quasi due discorsi a parte, pur all’interno della poetica del ‘ripensamento’ sul passato, meritano rispettivamente le composizioni pianistiche e quelle per orchestra.
Per pianoforte è in qualche modo il ripensamento allucinato della sonata classico-romantica e Quaderno propone il fronteggiarsi, anch’esso di vasta tradizione, di due pianoforti.
Movimento costituisce il ripensamento/riappropriazione della forma rondò-sonata della sinfonia, privata di guide tonali ed abilmente dissimulata grazie ad un cospicuo rallentamento del metronomo ed una conseguente dilatazione temporale-formale.Ouverture rappresenta una vera e propria ouverture d’opera, tra fantasmi di personaggi e di situazioni, che proprio al momento del loro ‘inverarsi’ sulla scena, all’apertura del sipario, si dissol-vono bruscamente, si negano. Poema, come le altre composizioni del ‘gruppo’, rivela i propri legami con il poema sinfonico, ma attenzione: trattasi di un progetto narrativo programmaticamente destinato alla frustrazione descrivendo assenze più che presenze, tensioni più che appagamenti, voglie ed intenzioni melodiche isolate o ricomposte di un tessuto orchestrale estremamente e variamente evocativo; una piccola-grande orchestra che evoca ‘solo’ sogni di poemi sinfonici.
Ed ecco Concerto, fatto di frizioni, di rugosità provocate da singoli semantemi discrepanti o collocati in realtà linguistiche eteronome: una forma sonata senza sviluppo che è come dire, avverte lo stesso autore, un “nient’altro che sviluppo”, e dentro il mistero dell’armonia in moto, tra violino e compagine orchestrale, nata quasi per coincidentia oppositum che tiene alla briglia quel che di tensivo si genera dall’atmosfera di continue traslazioni delle memorie contenute nel brano.
La storia compositiva di Bosco appare così unitaria nel suo svolgersi attraverso momenti ed esiti vari. Il diaframma intellettuale posto tra il presente, soggettivo e non, ed il passato remoto o prossimo si tempera nella ricerca continua di un altissimo livello di tensione emotiva (peraltro assai ben percepito e ‘convissuto’ dal pubblico) che sempre informa di sé l’opera; talvolta nutrendosi di eco lontane, talaltra di atmosfere affascinanti, tra ragione e sentimento.
E’ dunque nella costante, minuziosa, a volte lungamente sofferta, attenzione al dato espressivo che troviamo uno dei significati profondi dell’opera di Bosco: “E senza un pubblico, la musica tace”, egli ci avverte; le idee e la musica rischiano una triste morte, quella per asfissia. Un rischio enorme se la musica è un esercizio di libertà. Da ‘esercitarsi’ con talento, con Maestria: un “dono divino che non s’acquista con la tenacia e l’esercizio”, una scienza segreta che “non è qualcosa che un alchimista rifiuterebbe di insegnarvi: è una scienza che non si può insegnare affatto”, come dice Schönberg. Che è poi come ammonire dal parlare di come un brano musicale è fatto, di come il compositore l’ha costruito, per non parlare di che cosa è.

Stefano Leoni, 1992

 

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Gilberto Bosco (Torino 1946) ha compiuto gli studi musicali a Torino, frequentando in seguito i Ferienkurse di Darmstadt. E’ titolare della cattedra di Armonia, Contrappunto, Fuga e Composizione presso il Conservatorio di Torino. Ha insegnato Teoria Musicale al DAMS di Torino.
Sue composizioni sono state premiate in concorsi nazionali ed internazionali, nonché eseguite in molte sedi di prestigio, tra cui il Teatro alla Scala, il Teatro Comunale di Firenze, la Rai di Torino e di Roma, Settembre Musica, l’IRCAM di Parigi, la Fondazione Gulbenkian di Lisbona, l’Académie de France di Roma, il Cantiere d’Arte di Montepulciano. 
All’interno della sua produzione, hanno uno spazio di rilievo i lavori in cui viene affrontato il problema del rapporto con il testo. Da Cantata del 1984, in cui vengono intonati frammenti da Le Bateau Ivre di Arthur Rimbaud, al recente Cantico del Gallo Silvestre, cantata terza su testo di Giacomo Leopardi; dalla lontana Dedica, che utilizza frammenti di Gaspara Stampa, ai più recenti Zwei Brecht-Lieder, passando per altre composizioni su testi di Saba (Lettura), Tennyson (O Sorrow) e Pavese (Il mattino): il tema di come un testo possa suggerire e determinare, per simpatie e tradimenti, strutture formali e procedimenti compositivi, è stato affrontato in molti modi e sotto diverse prospettive. L’ultimo esempio è un lavoro per dodici strumenti, privo di testo se non virtuale: il recentissimo Fumo e cenere, provocato dalla lettura di alcune e-mail scritte da cittadini di New York durante l’11 settembre 2001; forse una conclusione, seppure provvisoria, di questa lunga serie. 

Compito, scomodo destino, fatica d’arte o d’artigiano, impegno etico e intellettuale, comporre è per Gilberto Bosco una questione di Mestiere e di Maestria, un impegno arduo una volta che la dissoluzione dell’avanguardia post-weberniana ha lasciato eredità pesanti, una volta che ripensamenti e riflessioni sono volti alla focalizzazione della direzionalità, presunta, postulata (o ancora in predicato) della musica, oggi.
Tra i compositori dell’ultima generazione Bosco è forse uno dei pochi che hanno saputo superare, all’insegna di una visione altamente morale del far musica, le angustie delle polemiche e delle querelles che popolarono le vicende musicali del decennio 1975-1985.
I piccoli grandi scontri che hanno percorso l’ambiente un poco d’élite della musica contemporanea e che sono rimbalzati su quotidiani, settimanali e riviste hanno visto contrapposte due posizioni radicali e a tutta prima inconciliabili: i resti delle avanguardie del secondo dopoguerra e un manipolo di giovanissimi impegnati in clamorose opere di spezzamento delle catene ideologiche poste dalle suddette avanguardie; tertium non datur, si diceva, almeno ad ascoltare dichiarazioni o musica in pubbliche occasioni. Tant’è che qualcuno ha poi provato a far altro: a riflettere; non solo sui cimiteri della Storia, ma pure su quelli, molto più intimi e quotidiani – e perciò forse più importanti ancora – della Memoria.
Memoria e Nostalgia, lo sguardo carico di pietas col quale ci si volge al passato, sono così per Bosco, autore di alcune partiture ‘manifesto’ degli ultimi anni, i lidi ai quali la cultura moderna, nel suo incessante traslare (ecco un altro motivo tipico del patrimonio intellettuale dell’Occidente: l’idea di Viaggio), è giunta. Ma di fronte a questi temi da svolgere, la posizione di Bosco non è ‘passiva’, anzi è colma di simpatia e di humanitas: la sua Nostalgia ha in sé un altissimo contenuto etico che rappresenta già di per sé, prima ancora degli esiti musicali, una sapiente via d’uscita dalle esperienze e dalle pastoie ‘re-ideologizzanti’ della trans-avanguardia che hanno poi riproposto il virus dell’intolleranza. L’Io (che è Memoria e Storia insieme) funge da catalizzatore nei confronti del passato e si interroga sulla necessità e sulla sostanziale legittimità del porsi la questione del ‘ritorno’ al termine del ‘viaggio’. Il Ritorno, la Nostalgia vengono, a partire da codesta riflessione, volti in Desiderio. Volontà e necessità di capire (di comprendere in sé) il passato, semplicemente interiorizzandolo: facendolo proprio. Si tratta, ovviamente, di una via rischiosa e costellata di tranelli, di incertezze, di equilibri sempre pronti a mancare, ma i risultati possono essere estremamente ‘poetici’, ‘umani’, nel senso più vasto del termine: come, per esempio, nella Cantata o in Serenata III
E non a caso la mappa delle composizioni di Bosco vede in posizione strategica, negli ultimi anni, i lavori vocali: facendo centro sulla Cantata e su Serenata III, partiture del biennio 1984/85, troviamo precedentemente Dedica, su testi di Gaspara Stampa, ed Espressivo, un lavoro ancora del 1978 che risente delle tecniche legate in qualche modo ai madrigalismi delle passate avanguardie, pur in un ambito di sostanziale recupero dell’espressività, appunto.
La straordinaria lucidità del discorso ‘boschiano’ ha raggiunto in questi brani-fulcro una fusione dinamica con l’elemento espressivo, grazie ora ad una lunga e sofferta gestazione, ora ad una griglia strutturale sorvegliatissima ma libera nelle sue scelte. Sono punti di arrivo, di riflessione dopo un percorso: codesta riflessione coinvolge non tanto il soggetto quanto l’oggetto. L’artista dunque non parla di sé, bensì parla dell’oggetto della sua arte, la musica, attraverso la musica stessa – che è poi l’unico modo sensato. Ne segue il viaggio, sia esso Storia o Memoria, o entrambe le cose insieme. Ecco allora l’importanza assoluta del rapporto tra linguaggio musicale e linguaggio verbale, tra testo e musica, insomma, con le ‘frizioni’ conseguenti. Dalla suggestione de Le Bateau Ivre di Rimbaud, viaggio intimo del poeta e metafora, per Bosco, dell’iter compiuto dalla musica negli ultimi cent’anni di storia del pensiero, a quell’O ew’ge Nacht, wann wirst du schwinden? (“O notte eterna, quando finirai?”) tratto da Il Flauto Magico mozartiano, testo-pretesto della Serenata III.
Dopo la Serenata III troviamo l’Interludio, l’Aria delle carte e, in ultimo, l’Allelujah. Attorno a questo fulcro ruotano altri filoni; particolarmente cospicuo quello, mai esaurito, della musica strumentale, dai ‘lontani’... c’est la clarté vibrante… In Nomine, all’archiviazione dei moduli tipici della Neue Musik in Again, fino al primo gruppo di SerenateSerenata I II (inframmezzate, non a caso, da un Notturno). E se le Serenate costituiscono una ‘serie’ nella quale comunque la Serenata IIIrappresenta altresì, per la sua natura specifica, un punto d’incrocio con il filone vocale, ecco che appare, a partire dal 1983, la ‘serie’ degli Improvvisi (Improvvisoper clarinetto e pianoforte, Improvviso a cinque per flauto, violino, viola, violoncello e arpa, Tre improvvisi per contrabbasso, Sesto improvviso per clarinetto, viola, violoncello e pianoforte) nei quali gli automatismi della memoria, automatismi ben consci nella parabola storica dell’improvvisazione, e che mettono in diretto rapporto, fino alla ‘coincidenza’, compositore ed esecutore, si sostituiscono criticamente agli automatismi dell’Avanguardia.
Ancora una volta è la Memoria (a braccetto dell’immaginazione) a giocare un ruolo essenziale nella definizione della poetica di Bosco; così la memoria della melodia, la riflessione su questo elemento, proprio nel brano intitolato Melodia, viene ripresa, mediata dal tempo e dalle esperienze maturate, nell’Aria delle carte (Varianti a Melodia) e nel Tempo di quartetto (Altre varianti a Melodia) con un procedimento di decantazione e arricchimento del materiale orizzontale che trasforma il concetto di sviluppo e/o variazione in un vero virtuosismo dell’intelligenza. Pure s’assapora l’amaro di un che di pessimistico, di un qualcosa di mortale in codesti brani.
Quasi due discorsi a parte, pur all’interno della poetica del ‘ripensamento’ sul passato, meritano rispettivamente le composizioni pianistiche e quelle per orchestra.
Per pianoforte è in qualche modo il ripensamento allucinato della sonata classico-romantica e Quaderno propone il fronteggiarsi, anch’esso di vasta tradizione, di due pianoforti.
Movimento costituisce il ripensamento/riappropriazione della forma rondò-sonata della sinfonia, privata di guide tonali ed abilmente dissimulata grazie ad un cospicuo rallentamento del metronomo ed una conseguente dilatazione temporale-formale.Ouverture rappresenta una vera e propria ouverture d’opera, tra fantasmi di personaggi e di situazioni, che proprio al momento del loro ‘inverarsi’ sulla scena, all’apertura del sipario, si dissol-vono bruscamente, si negano. Poema, come le altre composizioni del ‘gruppo’, rivela i propri legami con il poema sinfonico, ma attenzione: trattasi di un progetto narrativo programmaticamente destinato alla frustrazione descrivendo assenze più che presenze, tensioni più che appagamenti, voglie ed intenzioni melodiche isolate o ricomposte di un tessuto orchestrale estremamente e variamente evocativo; una piccola-grande orchestra che evoca ‘solo’ sogni di poemi sinfonici.
Ed ecco Concerto, fatto di frizioni, di rugosità provocate da singoli semantemi discrepanti o collocati in realtà linguistiche eteronome: una forma sonata senza sviluppo che è come dire, avverte lo stesso autore, un “nient’altro che sviluppo”, e dentro il mistero dell’armonia in moto, tra violino e compagine orchestrale, nata quasi per coincidentia oppositum che tiene alla briglia quel che di tensivo si genera dall’atmosfera di continue traslazioni delle memorie contenute nel brano.
La storia compositiva di Bosco appare così unitaria nel suo svolgersi attraverso momenti ed esiti vari. Il diaframma intellettuale posto tra il presente, soggettivo e non, ed il passato remoto o prossimo si tempera nella ricerca continua di un altissimo livello di tensione emotiva (peraltro assai ben percepito e ‘convissuto’ dal pubblico) che sempre informa di sé l’opera; talvolta nutrendosi di eco lontane, talaltra di atmosfere affascinanti, tra ragione e sentimento.
E’ dunque nella costante, minuziosa, a volte lungamente sofferta, attenzione al dato espressivo che troviamo uno dei significati profondi dell’opera di Bosco: “E senza un pubblico, la musica tace”, egli ci avverte; le idee e la musica rischiano una triste morte, quella per asfissia. Un rischio enorme se la musica è un esercizio di libertà. Da ‘esercitarsi’ con talento, con Maestria: un “dono divino che non s’acquista con la tenacia e l’esercizio”, una scienza segreta che “non è qualcosa che un alchimista rifiuterebbe di insegnarvi: è una scienza che non si può insegnare affatto”, come dice Schönberg. Che è poi come ammonire dal parlare di come un brano musicale è fatto, di come il compositore l’ha costruito, per non parlare di che cosa è.

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Gilberto Bosco (Torino 1946) ha compiuto gli studi musicali a Torino, frequentando in seguito i Ferienkurse di Darmstadt. E’ titolare della cattedra di Armonia, Contrappunto, Fuga e Composizione presso il Conservatorio di Torino. Ha insegnato Teoria Musicale al DAMS di Torino.
Sue composizioni sono state premiate in concorsi nazionali ed internazionali, nonché eseguite in molte sedi di prestigio, tra cui il Teatro alla Scala, il Teatro Comunale di Firenze, la Rai di Torino e di Roma, Settembre Musica, l’IRCAM di Parigi, la Fondazione Gulbenkian di Lisbona, l’Académie de France di Roma, il Cantiere d’Arte di Montepulciano. 
All’interno della sua produzione, hanno uno spazio di rilievo i lavori in cui viene affrontato il problema del rapporto con il testo. Da Cantata del 1984, in cui vengono intonati frammenti da Le Bateau Ivre di Arthur Rimbaud, al recente Cantico del Gallo Silvestre, cantata terza su testo di Giacomo Leopardi; dalla lontana Dedica, che utilizza frammenti di Gaspara Stampa, ai più recenti Zwei Brecht-Lieder, passando per altre composizioni su testi di Saba (Lettura), Tennyson (O Sorrow) e Pavese (Il mattino): il tema di come un testo possa suggerire e determinare, per simpatie e tradimenti, strutture formali e procedimenti compositivi, è stato affrontato in molti modi e sotto diverse prospettive. L’ultimo esempio è un lavoro per dodici strumenti, privo di testo se non virtuale: il recentissimo Fumo e cenere, provocato dalla lettura di alcune e-mail scritte da cittadini di New York durante l’11 settembre 2001; forse una conclusione, seppure provvisoria, di questa lunga serie. 

Compito, scomodo destino, fatica d’arte o d’artigiano, impegno etico e intellettuale, comporre è per Gilberto Bosco una questione di Mestiere e di Maestria, un impegno arduo una volta che la dissoluzione dell’avanguardia post-weberniana ha lasciato eredità pesanti, una volta che ripensamenti e riflessioni sono volti alla focalizzazione della direzionalità, presunta, postulata (o ancora in predicato) della musica, oggi.
Tra i compositori dell’ultima generazione Bosco è forse uno dei pochi che hanno saputo superare, all’insegna di una visione altamente morale del far musica, le angustie delle polemiche e delle querelles che popolarono le vicende musicali del decennio 1975-1985.
I piccoli grandi scontri che hanno percorso l’ambiente un poco d’élite della musica contemporanea e che sono rimbalzati su quotidiani, settimanali e riviste hanno visto contrapposte due posizioni radicali e a tutta prima inconciliabili: i resti delle avanguardie del secondo dopoguerra e un manipolo di giovanissimi impegnati in clamorose opere di spezzamento delle catene ideologiche poste dalle suddette avanguardie; tertium non datur, si diceva, almeno ad ascoltare dichiarazioni o musica in pubbliche occasioni. Tant’è che qualcuno ha poi provato a far altro: a riflettere; non solo sui cimiteri della Storia, ma pure su quelli, molto più intimi e quotidiani – e perciò forse più importanti ancora – della Memoria.
Memoria e Nostalgia, lo sguardo carico di pietas col quale ci si volge al passato, sono così per Bosco, autore di alcune partiture ‘manifesto’ degli ultimi anni, i lidi ai quali la cultura moderna, nel suo incessante traslare (ecco un altro motivo tipico del patrimonio intellettuale dell’Occidente: l’idea di Viaggio), è giunta. Ma di fronte a questi temi da svolgere, la posizione di Bosco non è ‘passiva’, anzi è colma di simpatia e di humanitas: la sua Nostalgia ha in sé un altissimo contenuto etico che rappresenta già di per sé, prima ancora degli esiti musicali, una sapiente via d’uscita dalle esperienze e dalle pastoie ‘re-ideologizzanti’ della trans-avanguardia che hanno poi riproposto il virus dell’intolleranza. L’Io (che è Memoria e Storia insieme) funge da catalizzatore nei confronti del passato e si interroga sulla necessità e sulla sostanziale legittimità del porsi la questione del ‘ritorno’ al termine del ‘viaggio’. Il Ritorno, la Nostalgia vengono, a partire da codesta riflessione, volti in Desiderio. Volontà e necessità di capire (di comprendere in sé) il passato, semplicemente interiorizzandolo: facendolo proprio. Si tratta, ovviamente, di una via rischiosa e costellata di tranelli, di incertezze, di equilibri sempre pronti a mancare, ma i risultati possono essere estremamente ‘poetici’, ‘umani’, nel senso più vasto del termine: come, per esempio, nella Cantata o in Serenata III
E non a caso la mappa delle composizioni di Bosco vede in posizione strategica, negli ultimi anni, i lavori vocali: facendo centro sulla Cantata e su Serenata III, partiture del biennio 1984/85, troviamo precedentemente Dedica, su testi di Gaspara Stampa, ed Espressivo, un lavoro ancora del 1978 che risente delle tecniche legate in qualche modo ai madrigalismi delle passate avanguardie, pur in un ambito di sostanziale recupero dell’espressività, appunto.
La straordinaria lucidità del discorso ‘boschiano’ ha raggiunto in questi brani-fulcro una fusione dinamica con l’elemento espressivo, grazie ora ad una lunga e sofferta gestazione, ora ad una griglia strutturale sorvegliatissima ma libera nelle sue scelte. Sono punti di arrivo, di riflessione dopo un percorso: codesta riflessione coinvolge non tanto il soggetto quanto l’oggetto. L’artista dunque non parla di sé, bensì parla dell’oggetto della sua arte, la musica, attraverso la musica stessa – che è poi l’unico modo sensato. Ne segue il viaggio, sia esso Storia o Memoria, o entrambe le cose insieme. Ecco allora l’importanza assoluta del rapporto tra linguaggio musicale e linguaggio verbale, tra testo e musica, insomma, con le ‘frizioni’ conseguenti. Dalla suggestione de Le Bateau Ivre di Rimbaud, viaggio intimo del poeta e metafora, per Bosco, dell’iter compiuto dalla musica negli ultimi cent’anni di storia del pensiero, a quell’O ew’ge Nacht, wann wirst du schwinden? (“O notte eterna, quando finirai?”) tratto da Il Flauto Magico mozartiano, testo-pretesto della Serenata III.
Dopo la Serenata III troviamo l’Interludio, l’Aria delle carte e, in ultimo, l’Allelujah. Attorno a questo fulcro ruotano altri filoni; particolarmente cospicuo quello, mai esaurito, della musica strumentale, dai ‘lontani’... c’est la clarté vibrante… In Nomine, all’archiviazione dei moduli tipici della Neue Musik in Again, fino al primo gruppo di SerenateSerenata I II (inframmezzate, non a caso, da un Notturno). E se le Serenate costituiscono una ‘serie’ nella quale comunque la Serenata IIIrappresenta altresì, per la sua natura specifica, un punto d’incrocio con il filone vocale, ecco che appare, a partire dal 1983, la ‘serie’ degli Improvvisi (Improvvisoper clarinetto e pianoforte, Improvviso a cinque per flauto, violino, viola, violoncello e arpa, Tre improvvisi per contrabbasso, Sesto improvviso per clarinetto, viola, violoncello e pianoforte) nei quali gli automatismi della memoria, automatismi ben consci nella parabola storica dell’improvvisazione, e che mettono in diretto rapporto, fino alla ‘coincidenza’, compositore ed esecutore, si sostituiscono criticamente agli automatismi dell’Avanguardia.
Ancora una volta è la Memoria (a braccetto dell’immaginazione) a giocare un ruolo essenziale nella definizione della poetica di Bosco; così la memoria della melodia, la riflessione su questo elemento, proprio nel brano intitolato Melodia, viene ripresa, mediata dal tempo e dalle esperienze maturate, nell’Aria delle carte (Varianti a Melodia) e nel Tempo di quartetto (Altre varianti a Melodia) con un procedimento di decantazione e arricchimento del materiale orizzontale che trasforma il concetto di sviluppo e/o variazione in un vero virtuosismo dell’intelligenza. Pure s’assapora l’amaro di un che di pessimistico, di un qualcosa di mortale in codesti brani.
Quasi due discorsi a parte, pur all’interno della poetica del ‘ripensamento’ sul passato, meritano rispettivamente le composizioni pianistiche e quelle per orchestra.
Per pianoforte è in qualche modo il ripensamento allucinato della sonata classico-romantica e Quaderno propone il fronteggiarsi, anch’esso di vasta tradizione, di due pianoforti.
Movimento costituisce il ripensamento/riappropriazione della forma rondò-sonata della sinfonia, privata di guide tonali ed abilmente dissimulata grazie ad un cospicuo rallentamento del metronomo ed una conseguente dilatazione temporale-formale.Ouverture rappresenta una vera e propria ouverture d’opera, tra fantasmi di personaggi e di situazioni, che proprio al momento del loro ‘inverarsi’ sulla scena, all’apertura del sipario, si dissol-vono bruscamente, si negano. Poema, come le altre composizioni del ‘gruppo’, rivela i propri legami con il poema sinfonico, ma attenzione: trattasi di un progetto narrativo programmaticamente destinato alla frustrazione descrivendo assenze più che presenze, tensioni più che appagamenti, voglie ed intenzioni melodiche isolate o ricomposte di un tessuto orchestrale estremamente e variamente evocativo; una piccola-grande orchestra che evoca ‘solo’ sogni di poemi sinfonici.
Ed ecco Concerto, fatto di frizioni, di rugosità provocate da singoli semantemi discrepanti o collocati in realtà linguistiche eteronome: una forma sonata senza sviluppo che è come dire, avverte lo stesso autore, un “nient’altro che sviluppo”, e dentro il mistero dell’armonia in moto, tra violino e compagine orchestrale, nata quasi per coincidentia oppositum che tiene alla briglia quel che di tensivo si genera dall’atmosfera di continue traslazioni delle memorie contenute nel brano.
La storia compositiva di Bosco appare così unitaria nel suo svolgersi attraverso momenti ed esiti vari. Il diaframma intellettuale posto tra il presente, soggettivo e non, ed il passato remoto o prossimo si tempera nella ricerca continua di un altissimo livello di tensione emotiva (peraltro assai ben percepito e ‘convissuto’ dal pubblico) che sempre informa di sé l’opera; talvolta nutrendosi di eco lontane, talaltra di atmosfere affascinanti, tra ragione e sentimento.
E’ dunque nella costante, minuziosa, a volte lungamente sofferta, attenzione al dato espressivo che troviamo uno dei significati profondi dell’opera di Bosco: “E senza un pubblico, la musica tace”, egli ci avverte; le idee e la musica rischiano una triste morte, quella per asfissia. Un rischio enorme se la musica è un esercizio di libertà. Da ‘esercitarsi’ con talento, con Maestria: un “dono divino che non s’acquista con la tenacia e l’esercizio”, una scienza segreta che “non è qualcosa che un alchimista rifiuterebbe di insegnarvi: è una scienza che non si può insegnare affatto”, come dice Schönberg. Che è poi come ammonire dal parlare di come un brano musicale è fatto, di come il compositore l’ha costruito, per non parlare di che cosa è.

Stefano Leoni, 1992

 

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