0%
SZ Sugar

Back

Bucchi, Valentino
Prev Next

Nato a Firenze il 29 novembre 1916, genitori musicisti (il padre suonava il corno, la madre il violino) Valentino Bucchi si è impegnato seriamente nella musica piuttosto tardi, diplomandosi, conseguita la laurea in filosofia presso l’Università di Firenze, anche in composizione presso il locale Liceo Musicale Cherubini (suoi insegnanti: C. Barbieri, Vito Frazzi, Luigi Dallapiccola). Faceva parte di un gruppo di giovani che negli anni 1932-33 abitavano a Firenze nello stesso quartiere e frequentavano tutti il liceo Dante, appassionati sin da allora di letteratura, arte e musica: Valentino Bucchi, Franco Lattes Fortini, Giorgio Spini, Giancarlo Bartolini Salimbeni, Giampiero Carocci. Valentino Bucchi ha iniziato giovanissimo la sua attività di compositore, di critico e di saggista. Sin dal 1938 suoi scritti compaiono su “La Nazione” di Firenze, di cui divenne, a soli 22 anni, il critico musicale. Nel 1939 veniva rappresentato il suo primo lavoro di teatro musicale, un’operina, Il giuoco del barone, che trae lo spunto da un antico gioco popolare fiorentino e che suscitò il fervido interesse di uno dei critici più inquietanti di allora: Bruno Barilli. Una nuova edizione del lavoro valse al suo autore un “Prix Italia” nel 1956.

Alla fine del 1941 vi fu una interruzione nella sua attività di critico dovuta alla guerra, ma i suoi articoli continuarono a comparire sporadicamente sul quotidiano fiorentino fino al “Maggio Musicale” del 1944. Dall’ottobre del 1945 riprese nuovamente il posto di critico militante, questa volta alla “Nazione del Popolo”, l’organo del Comitato di Liberazione Nazionale. Passò quindi al “Mattino dell’Italia centrale”, ma già alla fine dell’ottobre 1947 si dimise, ritenendo ormai conclusa questa esperienza della sua vita. Il “compositore” aveva defenestrato il “critico”. Lo scrivere “parole”, oltre che “musica”, rimase comunque una costante caratteristica di Bucchi. Tra i suoi saggi di maggior rilievo si ricordano: l’Orfeo di Claudio Monteverdi (1949) e Seraphita (“La nuova musica e l’alternativa”, 1961).

L’attività compositiva di Valentino Bucchi si è articolata nei registri più vari della comunicazione musicale. Ritenuto da molti un “isolato” poiché sfuggiva ad ogni catalogazione di corrente, venne poi definito da una critica più attenta come un musicista “libero”. Fu Roman Vlad, che, in occasione di un concerto pubblico alla Rai di Roma nel 1972, in cui fu proposto un trittico solistico del compositore fiorentino risalente agli anni 1969-71 (Concerto per clarinetto solo, le Lettres de la religieuse portugaise per voce sola e Ison per violoncello solo), annotava: “Si tratta di musiche che testimoniano tutte, in un modo o nell’altro, di quella esigenza di libertà che informa l’attività di Bucchi fin dai suoi esordi. Libertà nel duplice senso: di premessa etica e fine dell’esperienza umana, che si manifesta nella sua creatività e libertà da ogni tipo di conformismo estetico di retroguardia o di avanguardia che sia. Libertà che si traduce, tra l’altro, in una totale mancanza di preclusioni, sia nei confronti di mezzi discorsivi tradizionali, sia nei riguardi dei più recenti procedimenti stilistici, di scrittura e di tecnica strumentale”. Bucchi rimase gelosamente fedele al proprio mondo fantastico, venato di suggestioni letterarie, contrario a qualsiasi diaframma fra arte e pubblico, conscio della necessità di instaurare un colloquio sempre aperto con l’ascoltatore, come dimostrano vari suoi lavori: il felicissimo Concerto lirico per violino e archi del 1958, ad esempio, aveva superato dopo sette anni la millesima esecuzione. Sentì perentorio il bisogno di “informazione” che considerava un “dovere” che lo rendesse compartecipe della vita culturale del suo tempo. La sua musica è quindi pure “ricerca”. Ogni pezzo -era solito dire- deve essere anche la soluzione di un problema. Questa ricerca e una istintiva e razionale curiosità lo hanno accompagnato in tutto il suo cammino ed ha seguito senza deviazioni la sua traiettoria. Non ebbe timore di avvalersi anche delle tecniche più avanzate per soddisfare la sua ansia di espressione ad ogni costo e di lavoro ben fatto. L’ultima produzione, dal 1969 in poi, vede ulteriormente arricchita la già estesa gamma di procedimenti tecnici compositivi. I cardini di questa rinnovata concezione musicale sono: un particolare tessuto ritmico, basato esclusivamente sul kronos protos (tempo primo) che costituisce l’unità di misura, e sulle sue libere associazioni; l’uso sistematico di microintervalli, resi percepibili e apprezzabili dalla coesistenza di un suono fisso (ison) che consente la loro esatta individuazione: la presenza di ogni sorta di arditezze per la voce e gli strumenti, sempre però meticolosamente precisati nella scrittura e, soprattutto, “il desiderio di una ricerca espressiva assoluta, svincolata da ogni altro problema di rapporti”, come affermava lo stesso Bucchi nel presentare le Lettres de la religueuse portugaise , in occasione di una esecuzione durante il XXXIV Festival di Venezia nel 1971. Fa parte di questa individuazione di un sistema organico di microintervalli equabili un particolare tipo di chitarra quartitonale, che per primo aveva ideato e fatto realizzare, con la collaborazione del chitarrista Carlo Carfagna, per la quale stava scrivendo, sino al momento della morte (Roma, 8 maggio 1976) un metodo di cui sono rimaste solo poche pagine ancora inedite.

La musica di Bucchi è stata sempre controllata, meditata, essenziale. Il culto della concisione fonica lo ha portato ad evitare in genere la grande orchestra. La sua concezione a circoli chiusi della struttura musicale lo ha spinto spesso a comporre nello spirito del rondò o nelle brevi dimensioni del concerto grosso. I timbri trasparentissimi, gli impasti di sonorità prevalentemente scuri, certe caratteristiche predominanti, soprattutto nella struttura degli intervalli e nel loro disporsi nello spazio sonoro, sono comuni al linguaggio più antico e a quello più recente, sia nella difficile semplicità di certa sua musica “in grandissima parte a due voci, non di rado a una voce sola” (Fedele D’Amico), sia nella struttura notevolmente complessa dei suoi ultimi lavori.

Valentino Bucchi offre anche interesse per la sua posizione libertaria e anticonformista di estroso “laico della musica”. In una intervista televisiva nell’aprile 1976, a pochi giorni dalla sua scomparsa, sintetizzava così la sua posizione ideologica ed estetica: “Sono un non-violento, un non-competitivo nella vita e nell’arte. Del resto sono vissuto molti anni a Perugia, dove la tecnica efficacissima della non violenza ha avuto la sua affermazione teorica più avanzata. Combattiamo quindi anche nella musica la violenza dell’industria e del potere politico che impongono valori e successi prefabbricati, sostituendo fra l’altro alla difficile cultura la facile informazione”. E nella biografia bucchiana non mancano testimonianze artistiche di lotte civili: fra queste una singolare “Battaglia” per ottoni, timpani e tamburo, ispirata al liutista Donino Garsi, composta appositamente per inaugurare e concludere un “concerto-protesta” in Piazza della Repubblica a Perugia, che docenti ed allievi del Conservatorio di Musica “Morlacchi” (direttore del Conservatorio era da anni il compositore fiorentino) attuarono il 23 maggio 1973 per la definitiva statizzazione del loro istituto e per la mancata promozione della musica in Umbria.

Della formazione di Bucchi, vissuto negli anni giovanili, come abbiamo accennato, più tra letterati che tra musicisti, i riflessi si riscontrano anche nella sua produzione musicale. I Cori della pietà morta (1949-50) per coro misto e orchestra, su versi tratti da “Foglio di via” di Franco Fortini (l’antico compagno di studi ginnasiali e liceali), presentati da Scherchen al “Maggio Musicale Fiorentino” del 1950, costituiscono una tappa fondamentale nella produzione dell’autore, ma anche uno dei primi esempi -e tra i più significativi- della letteratura musicale della Resistenza. Ne rievocano con pathos profondo alcuni tragici episodi in un’atmosfera tesa, spasmodica, ottenuta con austera semplicità di mezzi. Rappresentava una espressione genuina di quell’impegno morale che l’autore considerava compito essenziale del compositore. Un impegno che ha trovato poi uno sbocco commosso nel Colloquio corale (1972) per recitante, voce solista, coro misto e orchestra, dedicato alla memoria di Aldo Capitini, l’ideatore delle prime marce della pace, apostolo della non violenza. Un recitante scandisce delle frasi tratte da La compresenza dei morti e dei viventi” , il testamento spirituale del filosofo umbro; la delirante, appassionata voce del soprano sottolinea, in una impervia linea di canto, i momenti più commossi della poesia capitiniana (un sapiente collage di versi tratti dal volume “Colloquio corale”). Un coro intona antiche invocazioni greche alla notte e alla quiete, avvolgendo, in una dimensione di mistero e di magia, le voci del soprano e del recitante; l’orchestra, infine ridotta all’essenziale, gioca su frammenti solistici ben concatenati che nella loro diversa suggestione timbrica rendono ancor più rarefatta l’atmosfera del brano. Concepiti ad oltre 20 anni di distanza l’uno dall’altro, i Cori della pietà morta e il Colloquio corale costituiscono idealmente l’ordito di una stessa trama e sono l’espressione più diretta di una concezione dialetticamente drammatica della vita.

In contrapposizione a questa visione profondamente accorata della realtà, il teatro bucchiano, del tutto sui generis, è essenzialmente ironico, tendente progressivamente al grottesco. Cerca di realizzarsi -se si eccettua il Contrabbasso (1954), la sola opera in musica, nel vero senso della parola- al di fuori degli schemi tradizionali. Un iter che inizia con il giovanile Giuoco del barone (un atto, testo di Alessandro Parronchi, risalente agli anni 1937-39, prima rappresentazione Firenze 20 dicembre 1939, considerato all’epoca in cui venne ideato un lavoro “sperimentale”) e perviene alle sue estreme conseguenze con l’amarissimo Coccodrillo (4 atti, 1969-70, libretto di Bucchi e di Mauro Pezzati), documento della presa di coscienza della posizione dell’uomo nella società contemporanea, che tanti contrasti e polemiche ha suscitato nelle sue rappresentazioni di Firenze, Roma, Bologna. Un singolarissimo lavoro, quest’ultimo, che propone una sintesi di vari elementi liberi da una gerarchia di valori predeterminata. Un’ampia gamma di possibilità tecniche viene articolata senza soluzione di continuità: prosa, parlato musicale, canto, cori, brani strumentali e musica registrata. Sulla scena: azione parlata, cantata, danzata, con interventi di sequenze mimate e filmate. È certo che il Coccodrillo -più adatto evidentemente ad essere recepito in un ambiente che non sia quello dei tradizionali teatri d’opera, ancora tutori del “bel canto”, accusa “ricevuta” -come scriveva Luciano Alberti- di tanti e tanti messaggi -o comunque dati- della situazione musicale teatrale di oggi. Messaggi e dati che vanno oltre l’ambito vasto della moderna e antica retorica dei generi musicali e si appuntano al livello specifico del linguaggio”. Una versione oratoriale del lavoro (Torino, Auditorium della Rai, 10 novembre 1973), riportato dall’autore -che ne curò direttamente la regia- sui propri obiettivi di comunicazione, ottenne un “ottimo successo” (Massimo Mila).

Più vicini alla tradizione sono il grottesco in un atto (prima rappresentazione Maggio Musicale Fiorentino, 20 giugno 1954) Il Contrabbasso, testo di Mario Mattolini e Mauro Pezzati e il balletto Mirandolina (prima al Teatro dell’Opera di Roma, 12 marzo 1957, ideato da Aurelio Milloss che ne curò anche la coreografia). In occasione di una ripresa di Mirandolina al Teatro La Fenice di Venezia (Mirandolina, Carla Fracci) il 26 giugno 1974, Bucchi scriveva “I due lavori costituiscono un dittico ideale… Il contrabbasso è un balletto cantato, in cui ogni movimento dei vari personaggi è musicalmente mimato ed ogni scena proposta attraverso il gesto del cantante… Mirandolina è un’opera danzata, in cui le situazioni e i discorsi dei personaggi si sciolgono senza residuo in un racconto mimato”.

Anche la deliziosa cantafavola Una notte in Paradiso (1959-60), testo di Luigi Bazzoni, tutta nutrita di un’arcaica tematica popolare, vera o inventata, è un unicum nel suo genere. Un tipo di spettacolo in cui musica, parlato, mimica si fondono tra loro, non in episodi successivi e autonomi, ma in uno stretto contesto in cui appare difficile scindere i vari elementi. Ne risulta una rappresentazione singolare, che rompe decisamente con i cliché cristallizzati dello spettacolo tradizionale, adottando una particolare tecnica di “sequenza” che permette di cogliere i punti essenziali dell’azione, collegandoli fra loro senza preoccupazione di luogo, di tempo e di durata. Un lavoro di questo genere -creato del resto originalmente per la radio- doveva di necessità essere articolato in “numeri”: voci di attori e commenti del coro anticipano l’azione, la riportano indietro, la rallentano, la fanno girare vorticosamente, in modo da annullare comunque e sempre la dimensione “tempo”.

Ultimo traguardo nel campo del teatro avrebbe dovuto essere il Tumulto dei Ciompi commissionato dal Teatro Comunale di Firenze per il “Maggio Musicale Fiorentino” del 1972. Uno spettacolo all’aperto previsto in una piazza su testo ricavato dalle cronache del movimento popolare del Trecento fiorentino di Massimo Dursi con musiche di Valentino Bucchi, ispirate ugualmente alle fonti storiche dell’epoca. All’ultimo momento -si era quasi all’inizio delle prove- lo spettacolo non ebbe più luogo. Quali le motivazioni reali, al di là di quelle ufficiali “difficoltà organizzative e finanziarie”? Grazie alla sapiente e certosina revisione musicale del compositore Fernando Sulpizi, basata su materiale di archivio della Fondazione, il Tumulto dei Ciompi è stato pubblicato a stampa nel 1996 e offerto, anche nell’anno del Giubileo, a tutti gli Enti Lirici italiani come opera mai rappresentata che fa serata, ma la proposta non ha avuto alcun riscontro. Perché? Se si guarda poi a Bucchi come trascrittore di antichi testi, peraltro liberamente rivissuti, va notato che le sue scelte si sono rivolte unicamente agli albori della moderna civiltà musicale teatrale, a stadi diversi. Li Gieus de Robin et de Marion di Adam de La Halle del Duecento francese (1951-52), le Laudes Evangelii, mistero coreografico elaborato nei modi di una sacra rappresentazione trecentesca italiana, presentato con la coreografia di Léonide Massine alla Sagra Musicale Umbra del 20 settembre 1952, filmate poi integralmente per l'”Associated Redifussion” e apparse sugli schermi televisivi di tutto il mondo, l’Orfeo di Monteverdi (Milano, Auditorium della Rai, 29 aprile 1967), realizzazione scenica della Televisione italiana, regia di Raymund Rouleau, 13 gennaio 1968).

Non vanno poi dimenticate, anche se esperienze abbastanza presto concluse, anche se risultate tutt’altro che negative le musiche di scena (tra le più significative quelle per la versione radiofonica del Faust di Goethe,Rai, III programma, 1953) e alcune colonne sonore tra cui Il cielo è rosso (1950), Febbre di vivere, nastro d’argento per il 1953 per le musiche, Banditi a Orgosolo (1961).

I lavori strumentali, da camera e per orchestra sono altrettanto caratterizzati: dalle Quattro liriche per canto e pianoforte (1935-40) su testi di Verlaine, Palazzeschi, Noventa, dall’antica Sonatina per pianoforte (1938) che fece definire il suo autore come “ermetico” della musica (Massimo Mila), sino al Vocalizzo nel modo dei fiori, per una voce e dieci strumenti, presentato alla XXXII settimana musicale senese il 19 agosto 1975. Ne ricordiamo alcuni, rinviando poi all’elenco delle composizioni edite di Bucchi, o ad altre analisi particolareggiate che in gran parte si trovano nelle pubblicazioni del Premio Valentino Bucchi, un periodico che accompagna dal 1981 la vita della Associazione Musicale prima e della Fondazione poi intitolata a Valentino Bucchi: i Cinque Madrigali La dolce pena per una voce e 9 strumenti su versi del Poliziano, presentati il 21 giugno 1946 al IX Festival internazionale di musica di Venezia; la cantata per voce e orchestra il Pianto delle creature, la cui prima ebbe luogo alla Sala Bianca di Palazzo Pitti a Firenze il 10 aprile 1947, solista Fedora Barbieri; la Ballata del Silenzio, il primo lavoro esclusivamente orchestrale liberamente ispirato ad un frammento poetico di Edgar Poe, una novità del XIV Festival di Venezia (24 settembre 1961); il Concerto in rondò per pianoforte e orchestra, in un unico tempo, alla ribalta del XX Festival di Venezia il 21 settembre 1957, pianista Vera Franceschi, ripreso poi al Teatro Comunale di Firenze il 10 aprile 1958 (direttore Savallisch, pianista Gino Gorini). Il mondo degli archi ha costituito sicuramente un punto di riferimento per il compositore e i risultati raggiunti sono stati tra i più felici: il Quartetto, commissionato nel 1956 dal Quartetto italiano ebbe la sua prima esecuzione a New York il 17 gennaio 1957 e venne ripreso più volte con successo da questa prestigiosa formazione nelle sue tournées negli Stati Uniti e in molte nazioni europee. Tra le composizioni di più ampio respiro e più impegnative dell’autore, esso palesa una matura assimilazione delle possibilità espressive degli strumenti ad arco e rifugge da ogni formalismo e da ogni tentazione di “musica pura”. I titoli stessi dei quattro tempi: Lamento, Girotondo, Notturno, Epilogo spingono a ritrovare nel testo sonoro una carica allusiva che anima le pagine di misteriose presenze umane:i quattro strumenti assumono nel dialogo una loro spiccata personalità su uno sfondo di drammatica contemplazione delle voci degli uomini e della natura. È del 1958 il Concerto lirico per violino e archi, creato in pochissimo tempo, di una essenzialità esemplare, imperniato su un costante evolversi della linea solistica del violino, lanciato in una serie di ampi intervalli, di intensa suggestione; consta di un solo tempo -come il successivo Concerto grottesco per contrabbasso e archi del 1967- ma si articola in vari movimenti, quasi una ideale forma di rondò a sette parti, il cui nucleo centrale è costituito da una ingegnosissima cadenza. Il già affermatissimo complesso dei “Musici” (solista Roberto Michelucci) ha sicuramente contribuito al successo di questa opera, inserita in molte loro tournées in Italia e all’estero. Nel 1963 Bucchi nella Fantasia per orchestra d’archi offre una sintesi degli ultimi 3 tempi del Quartetto . Nel Concerto grottesco del 1967 per contrabbasso e archi (e una nota di xilofono) già citato, lo strumento solista viene sperimentato in tutti i suoi potenziali registri, da quello più grave a quello più etereo degli armonici. In Ison per violoncello solo, del 1971, nato in stretta collaborazione con Amedeo Baldovino, che ne è stato anche il primo interprete, la tecnica dei microintervalli, ‘controllati’ da una nota di riferimento, è usata sistematicamente; microintervalli adottati anche in Un incipit per archi (1972), resi chiaramente percepibili grazie alla presenza di un suono fisso, l’ison . Nel 1973 Bucchi scriveva il Piccolo concerto per ottavino o/ e flauto e archi, in un solo movimento, costruito a pannelli, articolato in brevi episodi di intonazione assai diversa: corrisponde ad un’altra tendenza dell’autore, quella di tipizzare strumenti in apparenza meno idonei a comparire in veste solistica. Alla predilezione per il contrabbasso, estrinsecatasi anche attraverso il Concerto grottesco del 1967 fa qui da “pendant” l’attenzione meticolosa e perspicace verso il “piccolo”. Quel “piccolo” che costituisce anche un riferimento autobiografico, lì dove, in un appunto manoscritto dell’autore su un programma della prima esecuzione (2 novembre 1973, Teatro Comunale di Firenze, Orchestra del Maggio diretta da Piero Bellugi, solista l’eccezionale ottavinista Roberto Fabbriciani) si legge: “una voce libera, piccola, acuta che subisce la violenza dell’orchestra nel Tutti e poi riesce ad avere l’ultima parola alla conclusione”. Nell’agosto del 1974 Bucchi termina il Concerto di Concerti per archi (con violino, viola, violoncello e contrabbasso obbligati). Il lavoro ha all’incirca la durata di un “concerto grosso”. Consta di alcuni microconcerti affidati a strumenti a solo o a combinazioni solistiche, con l’alternanza di ritornelli eseguiti da tutti gli archi che concludono la composizione con un epilogo. Infine è del 1976, il lavoro, ultimato e revisionato da Fernando Sulpizi, Soliloquios, monodramma per viola sola, l’ultima opera di Bucchi in assoluto. Si tratta di un dialogo fra un attore e il suo registratore che avrebbe dovuto costituire la parte centrale di un trittico destinato allo schermo televisivo, il cui testo è una sorta di collage di scene e di battute tratte ed elaborate dal radiodramma di Mauro Pezzati, La ricerca d’Ippolito. Nasce quindi una drammatica contrapposizione di due voci diverse appartenenti allo stesso individuo. Che Bucchi avesse una predilezione per la viola è dimostrato in tutto l’arco della sua produzione, visto che sostituisce spesso il violino (vedi ad esempio le Laudes Evangelii, Li gieus de Robin et de Marion , l’Orfeo di Monteverdi, o Il Coccodrillo) . Inoltre l’esigenza particolarmente evidente nel suo ultimo periodo compositivo di approfondire le possibilità tecnico-espressive dei singoli strumenti convinse forse il compositore a realizzare quell’ ultima enigmatica opera ove per la distribuzione del materiale sonoro utilizza da uno a quattro pentagrammi. Tra le altre composizioni da menzionare il Racconto Siciliano (1955), balletto originale per due pianoforti (1955) da una idea di Luchino Visconti; un minuscolo concerto per pianoforte Le petit prince , ispirato a Saint-Exupéry, tutto sulle cinque dita, adatto all’esecuzione di bambini: si tratta di cinque piccoli pezzi che si succedono senza soluzione di continuità, e, sempre per pianoforte; i Fogli d’Album (1957-1973).

Direttore artistico e consulente di Accademie ed Enti Lirici (Accademia Filarmonica Romana 1958-60, Teatro Comunale di Bologna 1963-67, Accademia Chigiana di Siena, docente dal 1945 nei Conservatori di Firenze e di Venezia, ha diretto il Conservatorio di Perugia dal 1957 al settembre 1974, per passare poi alla direzione del Conservatorio Fiorentino dal 1974 sino alla sua scomparsa.

E a concludere questo sintetico ritratto di Valentino Bucchi ci pare significativo quanto egli stesso scriveva nel 1970 “penso che non esista più nessuna tecnica compositiva autosufficiente ed esclusiva, né tradizionale, né d’avanguardia; tutte le più diverse tecniche atte ad afferrare il reale, a comprenderlo e a giudicarlo, possono essere impiegate; il nostro compito è quello di un recupero di valori che permetta un discorso completamente rinnovato; in tale discorso il compositore può essere del tutto libero; questo essere libero, questo ricominciare da capo, rappresenta uno degli aspetti positivi del momento musicale contemporaneo”.

Vai a tutti gli eventi >>>

1-20 di 21

Prev Next

Nato a Firenze il 29 novembre 1916, genitori musicisti (il padre suonava il corno, la madre il violino) Valentino Bucchi si è impegnato seriamente nella musica piuttosto tardi, diplomandosi, conseguita la laurea in filosofia presso l’Università di Firenze, anche in composizione presso il locale Liceo Musicale Cherubini (suoi insegnanti: C. Barbieri, Vito Frazzi, Luigi Dallapiccola). Faceva parte di un gruppo di giovani che negli anni 1932-33 abitavano a Firenze nello stesso quartiere e frequentavano tutti il liceo Dante, appassionati sin da allora di letteratura, arte e musica: Valentino Bucchi, Franco Lattes Fortini, Giorgio Spini, Giancarlo Bartolini Salimbeni, Giampiero Carocci. Valentino Bucchi ha iniziato giovanissimo la sua attività di compositore, di critico e di saggista. Sin dal 1938 suoi scritti compaiono su “La Nazione” di Firenze, di cui divenne, a soli 22 anni, il critico musicale. Nel 1939 veniva rappresentato il suo primo lavoro di teatro musicale, un’operina, Il giuoco del barone, che trae lo spunto da un antico gioco popolare fiorentino e che suscitò il fervido interesse di uno dei critici più inquietanti di allora: Bruno Barilli. Una nuova edizione del lavoro valse al suo autore un “Prix Italia” nel 1956.

Alla fine del 1941 vi fu una interruzione nella sua attività di critico dovuta alla guerra, ma i suoi articoli continuarono a comparire sporadicamente sul quotidiano fiorentino fino al “Maggio Musicale” del 1944. Dall’ottobre del 1945 riprese nuovamente il posto di critico militante, questa volta alla “Nazione del Popolo”, l’organo del Comitato di Liberazione Nazionale. Passò quindi al “Mattino dell’Italia centrale”, ma già alla fine dell’ottobre 1947 si dimise, ritenendo ormai conclusa questa esperienza della sua vita. Il “compositore” aveva defenestrato il “critico”. Lo scrivere “parole”, oltre che “musica”, rimase comunque una costante caratteristica di Bucchi. Tra i suoi saggi di maggior rilievo si ricordano: l’Orfeo di Claudio Monteverdi (1949) e Seraphita (“La nuova musica e l’alternativa”, 1961).

L’attività compositiva di Valentino Bucchi si è articolata nei registri più vari della comunicazione musicale. Ritenuto da molti un “isolato” poiché sfuggiva ad ogni catalogazione di corrente, venne poi definito da una critica più attenta come un musicista “libero”. Fu Roman Vlad, che, in occasione di un concerto pubblico alla Rai di Roma nel 1972, in cui fu proposto un trittico solistico del compositore fiorentino risalente agli anni 1969-71 (Concerto per clarinetto solo, le Lettres de la religieuse portugaise per voce sola e Ison per violoncello solo), annotava: “Si tratta di musiche che testimoniano tutte, in un modo o nell’altro, di quella esigenza di libertà che informa l’attività di Bucchi fin dai suoi esordi. Libertà nel duplice senso: di premessa etica e fine dell’esperienza umana, che si manifesta nella sua creatività e libertà da ogni tipo di conformismo estetico di retroguardia o di avanguardia che sia. Libertà che si traduce, tra l’altro, in una totale mancanza di preclusioni, sia nei confronti di mezzi discorsivi tradizionali, sia nei riguardi dei più recenti procedimenti stilistici, di scrittura e di tecnica strumentale”. Bucchi rimase gelosamente fedele al proprio mondo fantastico, venato di suggestioni letterarie, contrario a qualsiasi diaframma fra arte e pubblico, conscio della necessità di instaurare un colloquio sempre aperto con l’ascoltatore, come dimostrano vari suoi lavori: il felicissimo Concerto lirico per violino e archi del 1958, ad esempio, aveva superato dopo sette anni la millesima esecuzione. Sentì perentorio il bisogno di “informazione” che considerava un “dovere” che lo rendesse compartecipe della vita culturale del suo tempo. La sua musica è quindi pure “ricerca”. Ogni pezzo -era solito dire- deve essere anche la soluzione di un problema. Questa ricerca e una istintiva e razionale curiosità lo hanno accompagnato in tutto il suo cammino ed ha seguito senza deviazioni la sua traiettoria. Non ebbe timore di avvalersi anche delle tecniche più avanzate per soddisfare la sua ansia di espressione ad ogni costo e di lavoro ben fatto. L’ultima produzione, dal 1969 in poi, vede ulteriormente arricchita la già estesa gamma di procedimenti tecnici compositivi. I cardini di questa rinnovata concezione musicale sono: un particolare tessuto ritmico, basato esclusivamente sul kronos protos (tempo primo) che costituisce l’unità di misura, e sulle sue libere associazioni; l’uso sistematico di microintervalli, resi percepibili e apprezzabili dalla coesistenza di un suono fisso (ison) che consente la loro esatta individuazione: la presenza di ogni sorta di arditezze per la voce e gli strumenti, sempre però meticolosamente precisati nella scrittura e, soprattutto, “il desiderio di una ricerca espressiva assoluta, svincolata da ogni altro problema di rapporti”, come affermava lo stesso Bucchi nel presentare le Lettres de la religueuse portugaise , in occasione di una esecuzione durante il XXXIV Festival di Venezia nel 1971. Fa parte di questa individuazione di un sistema organico di microintervalli equabili un particolare tipo di chitarra quartitonale, che per primo aveva ideato e fatto realizzare, con la collaborazione del chitarrista Carlo Carfagna, per la quale stava scrivendo, sino al momento della morte (Roma, 8 maggio 1976) un metodo di cui sono rimaste solo poche pagine ancora inedite.

La musica di Bucchi è stata sempre controllata, meditata, essenziale. Il culto della concisione fonica lo ha portato ad evitare in genere la grande orchestra. La sua concezione a circoli chiusi della struttura musicale lo ha spinto spesso a comporre nello spirito del rondò o nelle brevi dimensioni del concerto grosso. I timbri trasparentissimi, gli impasti di sonorità prevalentemente scuri, certe caratteristiche predominanti, soprattutto nella struttura degli intervalli e nel loro disporsi nello spazio sonoro, sono comuni al linguaggio più antico e a quello più recente, sia nella difficile semplicità di certa sua musica “in grandissima parte a due voci, non di rado a una voce sola” (Fedele D’Amico), sia nella struttura notevolmente complessa dei suoi ultimi lavori.

Valentino Bucchi offre anche interesse per la sua posizione libertaria e anticonformista di estroso “laico della musica”. In una intervista televisiva nell’aprile 1976, a pochi giorni dalla sua scomparsa, sintetizzava così la sua posizione ideologica ed estetica: “Sono un non-violento, un non-competitivo nella vita e nell’arte. Del resto sono vissuto molti anni a Perugia, dove la tecnica efficacissima della non violenza ha avuto la sua affermazione teorica più avanzata. Combattiamo quindi anche nella musica la violenza dell’industria e del potere politico che impongono valori e successi prefabbricati, sostituendo fra l’altro alla difficile cultura la facile informazione”. E nella biografia bucchiana non mancano testimonianze artistiche di lotte civili: fra queste una singolare “Battaglia” per ottoni, timpani e tamburo, ispirata al liutista Donino Garsi, composta appositamente per inaugurare e concludere un “concerto-protesta” in Piazza della Repubblica a Perugia, che docenti ed allievi del Conservatorio di Musica “Morlacchi” (direttore del Conservatorio era da anni il compositore fiorentino) attuarono il 23 maggio 1973 per la definitiva statizzazione del loro istituto e per la mancata promozione della musica in Umbria.

Della formazione di Bucchi, vissuto negli anni giovanili, come abbiamo accennato, più tra letterati che tra musicisti, i riflessi si riscontrano anche nella sua produzione musicale. I Cori della pietà morta (1949-50) per coro misto e orchestra, su versi tratti da “Foglio di via” di Franco Fortini (l’antico compagno di studi ginnasiali e liceali), presentati da Scherchen al “Maggio Musicale Fiorentino” del 1950, costituiscono una tappa fondamentale nella produzione dell’autore, ma anche uno dei primi esempi -e tra i più significativi- della letteratura musicale della Resistenza. Ne rievocano con pathos profondo alcuni tragici episodi in un’atmosfera tesa, spasmodica, ottenuta con austera semplicità di mezzi. Rappresentava una espressione genuina di quell’impegno morale che l’autore considerava compito essenziale del compositore. Un impegno che ha trovato poi uno sbocco commosso nel Colloquio corale (1972) per recitante, voce solista, coro misto e orchestra, dedicato alla memoria di Aldo Capitini, l’ideatore delle prime marce della pace, apostolo della non violenza. Un recitante scandisce delle frasi tratte da La compresenza dei morti e dei viventi” , il testamento spirituale del filosofo umbro; la delirante, appassionata voce del soprano sottolinea, in una impervia linea di canto, i momenti più commossi della poesia capitiniana (un sapiente collage di versi tratti dal volume “Colloquio corale”). Un coro intona antiche invocazioni greche alla notte e alla quiete, avvolgendo, in una dimensione di mistero e di magia, le voci del soprano e del recitante; l’orchestra, infine ridotta all’essenziale, gioca su frammenti solistici ben concatenati che nella loro diversa suggestione timbrica rendono ancor più rarefatta l’atmosfera del brano. Concepiti ad oltre 20 anni di distanza l’uno dall’altro, i Cori della pietà morta e il Colloquio corale costituiscono idealmente l’ordito di una stessa trama e sono l’espressione più diretta di una concezione dialetticamente drammatica della vita.

In contrapposizione a questa visione profondamente accorata della realtà, il teatro bucchiano, del tutto sui generis, è essenzialmente ironico, tendente progressivamente al grottesco. Cerca di realizzarsi -se si eccettua il Contrabbasso (1954), la sola opera in musica, nel vero senso della parola- al di fuori degli schemi tradizionali. Un iter che inizia con il giovanile Giuoco del barone (un atto, testo di Alessandro Parronchi, risalente agli anni 1937-39, prima rappresentazione Firenze 20 dicembre 1939, considerato all’epoca in cui venne ideato un lavoro “sperimentale”) e perviene alle sue estreme conseguenze con l’amarissimo Coccodrillo (4 atti, 1969-70, libretto di Bucchi e di Mauro Pezzati), documento della presa di coscienza della posizione dell’uomo nella società contemporanea, che tanti contrasti e polemiche ha suscitato nelle sue rappresentazioni di Firenze, Roma, Bologna. Un singolarissimo lavoro, quest’ultimo, che propone una sintesi di vari elementi liberi da una gerarchia di valori predeterminata. Un’ampia gamma di possibilità tecniche viene articolata senza soluzione di continuità: prosa, parlato musicale, canto, cori, brani strumentali e musica registrata. Sulla scena: azione parlata, cantata, danzata, con interventi di sequenze mimate e filmate. È certo che il Coccodrillo -più adatto evidentemente ad essere recepito in un ambiente che non sia quello dei tradizionali teatri d’opera, ancora tutori del “bel canto”, accusa “ricevuta” -come scriveva Luciano Alberti- di tanti e tanti messaggi -o comunque dati- della situazione musicale teatrale di oggi. Messaggi e dati che vanno oltre l’ambito vasto della moderna e antica retorica dei generi musicali e si appuntano al livello specifico del linguaggio”. Una versione oratoriale del lavoro (Torino, Auditorium della Rai, 10 novembre 1973), riportato dall’autore -che ne curò direttamente la regia- sui propri obiettivi di comunicazione, ottenne un “ottimo successo” (Massimo Mila).

Più vicini alla tradizione sono il grottesco in un atto (prima rappresentazione Maggio Musicale Fiorentino, 20 giugno 1954) Il Contrabbasso, testo di Mario Mattolini e Mauro Pezzati e il balletto Mirandolina (prima al Teatro dell’Opera di Roma, 12 marzo 1957, ideato da Aurelio Milloss che ne curò anche la coreografia). In occasione di una ripresa di Mirandolina al Teatro La Fenice di Venezia (Mirandolina, Carla Fracci) il 26 giugno 1974, Bucchi scriveva “I due lavori costituiscono un dittico ideale… Il contrabbasso è un balletto cantato, in cui ogni movimento dei vari personaggi è musicalmente mimato ed ogni scena proposta attraverso il gesto del cantante… Mirandolina è un’opera danzata, in cui le situazioni e i discorsi dei personaggi si sciolgono senza residuo in un racconto mimato”.

Anche la deliziosa cantafavola Una notte in Paradiso (1959-60), testo di Luigi Bazzoni, tutta nutrita di un’arcaica tematica popolare, vera o inventata, è un unicum nel suo genere. Un tipo di spettacolo in cui musica, parlato, mimica si fondono tra loro, non in episodi successivi e autonomi, ma in uno stretto contesto in cui appare difficile scindere i vari elementi. Ne risulta una rappresentazione singolare, che rompe decisamente con i cliché cristallizzati dello spettacolo tradizionale, adottando una particolare tecnica di “sequenza” che permette di cogliere i punti essenziali dell’azione, collegandoli fra loro senza preoccupazione di luogo, di tempo e di durata. Un lavoro di questo genere -creato del resto originalmente per la radio- doveva di necessità essere articolato in “numeri”: voci di attori e commenti del coro anticipano l’azione, la riportano indietro, la rallentano, la fanno girare vorticosamente, in modo da annullare comunque e sempre la dimensione “tempo”.

Ultimo traguardo nel campo del teatro avrebbe dovuto essere il Tumulto dei Ciompi commissionato dal Teatro Comunale di Firenze per il “Maggio Musicale Fiorentino” del 1972. Uno spettacolo all’aperto previsto in una piazza su testo ricavato dalle cronache del movimento popolare del Trecento fiorentino di Massimo Dursi con musiche di Valentino Bucchi, ispirate ugualmente alle fonti storiche dell’epoca. All’ultimo momento -si era quasi all’inizio delle prove- lo spettacolo non ebbe più luogo. Quali le motivazioni reali, al di là di quelle ufficiali “difficoltà organizzative e finanziarie”? Grazie alla sapiente e certosina revisione musicale del compositore Fernando Sulpizi, basata su materiale di archivio della Fondazione, il Tumulto dei Ciompi è stato pubblicato a stampa nel 1996 e offerto, anche nell’anno del Giubileo, a tutti gli Enti Lirici italiani come opera mai rappresentata che fa serata, ma la proposta non ha avuto alcun riscontro. Perché? Se si guarda poi a Bucchi come trascrittore di antichi testi, peraltro liberamente rivissuti, va notato che le sue scelte si sono rivolte unicamente agli albori della moderna civiltà musicale teatrale, a stadi diversi. Li Gieus de Robin et de Marion di Adam de La Halle del Duecento francese (1951-52), le Laudes Evangelii, mistero coreografico elaborato nei modi di una sacra rappresentazione trecentesca italiana, presentato con la coreografia di Léonide Massine alla Sagra Musicale Umbra del 20 settembre 1952, filmate poi integralmente per l'”Associated Redifussion” e apparse sugli schermi televisivi di tutto il mondo, l’Orfeo di Monteverdi (Milano, Auditorium della Rai, 29 aprile 1967), realizzazione scenica della Televisione italiana, regia di Raymund Rouleau, 13 gennaio 1968).

Non vanno poi dimenticate, anche se esperienze abbastanza presto concluse, anche se risultate tutt’altro che negative le musiche di scena (tra le più significative quelle per la versione radiofonica del Faust di Goethe,Rai, III programma, 1953) e alcune colonne sonore tra cui Il cielo è rosso (1950), Febbre di vivere, nastro d’argento per il 1953 per le musiche, Banditi a Orgosolo (1961).

I lavori strumentali, da camera e per orchestra sono altrettanto caratterizzati: dalle Quattro liriche per canto e pianoforte (1935-40) su testi di Verlaine, Palazzeschi, Noventa, dall’antica Sonatina per pianoforte (1938) che fece definire il suo autore come “ermetico” della musica (Massimo Mila), sino al Vocalizzo nel modo dei fiori, per una voce e dieci strumenti, presentato alla XXXII settimana musicale senese il 19 agosto 1975. Ne ricordiamo alcuni, rinviando poi all’elenco delle composizioni edite di Bucchi, o ad altre analisi particolareggiate che in gran parte si trovano nelle pubblicazioni del Premio Valentino Bucchi, un periodico che accompagna dal 1981 la vita della Associazione Musicale prima e della Fondazione poi intitolata a Valentino Bucchi: i Cinque Madrigali La dolce pena per una voce e 9 strumenti su versi del Poliziano, presentati il 21 giugno 1946 al IX Festival internazionale di musica di Venezia; la cantata per voce e orchestra il Pianto delle creature, la cui prima ebbe luogo alla Sala Bianca di Palazzo Pitti a Firenze il 10 aprile 1947, solista Fedora Barbieri; la Ballata del Silenzio, il primo lavoro esclusivamente orchestrale liberamente ispirato ad un frammento poetico di Edgar Poe, una novità del XIV Festival di Venezia (24 settembre 1961); il Concerto in rondò per pianoforte e orchestra, in un unico tempo, alla ribalta del XX Festival di Venezia il 21 settembre 1957, pianista Vera Franceschi, ripreso poi al Teatro Comunale di Firenze il 10 aprile 1958 (direttore Savallisch, pianista Gino Gorini). Il mondo degli archi ha costituito sicuramente un punto di riferimento per il compositore e i risultati raggiunti sono stati tra i più felici: il Quartetto, commissionato nel 1956 dal Quartetto italiano ebbe la sua prima esecuzione a New York il 17 gennaio 1957 e venne ripreso più volte con successo da questa prestigiosa formazione nelle sue tournées negli Stati Uniti e in molte nazioni europee. Tra le composizioni di più ampio respiro e più impegnative dell’autore, esso palesa una matura assimilazione delle possibilità espressive degli strumenti ad arco e rifugge da ogni formalismo e da ogni tentazione di “musica pura”. I titoli stessi dei quattro tempi: Lamento, Girotondo, Notturno, Epilogo spingono a ritrovare nel testo sonoro una carica allusiva che anima le pagine di misteriose presenze umane:i quattro strumenti assumono nel dialogo una loro spiccata personalità su uno sfondo di drammatica contemplazione delle voci degli uomini e della natura. È del 1958 il Concerto lirico per violino e archi, creato in pochissimo tempo, di una essenzialità esemplare, imperniato su un costante evolversi della linea solistica del violino, lanciato in una serie di ampi intervalli, di intensa suggestione; consta di un solo tempo -come il successivo Concerto grottesco per contrabbasso e archi del 1967- ma si articola in vari movimenti, quasi una ideale forma di rondò a sette parti, il cui nucleo centrale è costituito da una ingegnosissima cadenza. Il già affermatissimo complesso dei “Musici” (solista Roberto Michelucci) ha sicuramente contribuito al successo di questa opera, inserita in molte loro tournées in Italia e all’estero. Nel 1963 Bucchi nella Fantasia per orchestra d’archi offre una sintesi degli ultimi 3 tempi del Quartetto . Nel Concerto grottesco del 1967 per contrabbasso e archi (e una nota di xilofono) già citato, lo strumento solista viene sperimentato in tutti i suoi potenziali registri, da quello più grave a quello più etereo degli armonici. In Ison per violoncello solo, del 1971, nato in stretta collaborazione con Amedeo Baldovino, che ne è stato anche il primo interprete, la tecnica dei microintervalli, ‘controllati’ da una nota di riferimento, è usata sistematicamente; microintervalli adottati anche in Un incipit per archi (1972), resi chiaramente percepibili grazie alla presenza di un suono fisso, l’ison . Nel 1973 Bucchi scriveva il Piccolo concerto per ottavino o/ e flauto e archi, in un solo movimento, costruito a pannelli, articolato in brevi episodi di intonazione assai diversa: corrisponde ad un’altra tendenza dell’autore, quella di tipizzare strumenti in apparenza meno idonei a comparire in veste solistica. Alla predilezione per il contrabbasso, estrinsecatasi anche attraverso il Concerto grottesco del 1967 fa qui da “pendant” l’attenzione meticolosa e perspicace verso il “piccolo”. Quel “piccolo” che costituisce anche un riferimento autobiografico, lì dove, in un appunto manoscritto dell’autore su un programma della prima esecuzione (2 novembre 1973, Teatro Comunale di Firenze, Orchestra del Maggio diretta da Piero Bellugi, solista l’eccezionale ottavinista Roberto Fabbriciani) si legge: “una voce libera, piccola, acuta che subisce la violenza dell’orchestra nel Tutti e poi riesce ad avere l’ultima parola alla conclusione”. Nell’agosto del 1974 Bucchi termina il Concerto di Concerti per archi (con violino, viola, violoncello e contrabbasso obbligati). Il lavoro ha all’incirca la durata di un “concerto grosso”. Consta di alcuni microconcerti affidati a strumenti a solo o a combinazioni solistiche, con l’alternanza di ritornelli eseguiti da tutti gli archi che concludono la composizione con un epilogo. Infine è del 1976, il lavoro, ultimato e revisionato da Fernando Sulpizi, Soliloquios, monodramma per viola sola, l’ultima opera di Bucchi in assoluto. Si tratta di un dialogo fra un attore e il suo registratore che avrebbe dovuto costituire la parte centrale di un trittico destinato allo schermo televisivo, il cui testo è una sorta di collage di scene e di battute tratte ed elaborate dal radiodramma di Mauro Pezzati, La ricerca d’Ippolito. Nasce quindi una drammatica contrapposizione di due voci diverse appartenenti allo stesso individuo. Che Bucchi avesse una predilezione per la viola è dimostrato in tutto l’arco della sua produzione, visto che sostituisce spesso il violino (vedi ad esempio le Laudes Evangelii, Li gieus de Robin et de Marion , l’Orfeo di Monteverdi, o Il Coccodrillo) . Inoltre l’esigenza particolarmente evidente nel suo ultimo periodo compositivo di approfondire le possibilità tecnico-espressive dei singoli strumenti convinse forse il compositore a realizzare quell’ ultima enigmatica opera ove per la distribuzione del materiale sonoro utilizza da uno a quattro pentagrammi. Tra le altre composizioni da menzionare il Racconto Siciliano (1955), balletto originale per due pianoforti (1955) da una idea di Luchino Visconti; un minuscolo concerto per pianoforte Le petit prince , ispirato a Saint-Exupéry, tutto sulle cinque dita, adatto all’esecuzione di bambini: si tratta di cinque piccoli pezzi che si succedono senza soluzione di continuità, e, sempre per pianoforte; i Fogli d’Album (1957-1973).

Direttore artistico e consulente di Accademie ed Enti Lirici (Accademia Filarmonica Romana 1958-60, Teatro Comunale di Bologna 1963-67, Accademia Chigiana di Siena, docente dal 1945 nei Conservatori di Firenze e di Venezia, ha diretto il Conservatorio di Perugia dal 1957 al settembre 1974, per passare poi alla direzione del Conservatorio Fiorentino dal 1974 sino alla sua scomparsa.

E a concludere questo sintetico ritratto di Valentino Bucchi ci pare significativo quanto egli stesso scriveva nel 1970 “penso che non esista più nessuna tecnica compositiva autosufficiente ed esclusiva, né tradizionale, né d’avanguardia; tutte le più diverse tecniche atte ad afferrare il reale, a comprenderlo e a giudicarlo, possono essere impiegate; il nostro compito è quello di un recupero di valori che permetta un discorso completamente rinnovato; in tale discorso il compositore può essere del tutto libero; questo essere libero, questo ricominciare da capo, rappresenta uno degli aspetti positivi del momento musicale contemporaneo”.

Vai a tutti gli eventi >>>

1-20 di 21

Carica altri
Bucchi, Valentino
Prev Next

Nato a Firenze il 29 novembre 1916, genitori musicisti (il padre suonava il corno, la madre il violino) Valentino Bucchi si è impegnato seriamente nella musica piuttosto tardi, diplomandosi, conseguita la laurea in filosofia presso l’Università di Firenze, anche in composizione presso il locale Liceo Musicale Cherubini (suoi insegnanti: C. Barbieri, Vito Frazzi, Luigi Dallapiccola). Faceva parte di un gruppo di giovani che negli anni 1932-33 abitavano a Firenze nello stesso quartiere e frequentavano tutti il liceo Dante, appassionati sin da allora di letteratura, arte e musica: Valentino Bucchi, Franco Lattes Fortini, Giorgio Spini, Giancarlo Bartolini Salimbeni, Giampiero Carocci. Valentino Bucchi ha iniziato giovanissimo la sua attività di compositore, di critico e di saggista. Sin dal 1938 suoi scritti compaiono su “La Nazione” di Firenze, di cui divenne, a soli 22 anni, il critico musicale. Nel 1939 veniva rappresentato il suo primo lavoro di teatro musicale, un’operina, Il giuoco del barone, che trae lo spunto da un antico gioco popolare fiorentino e che suscitò il fervido interesse di uno dei critici più inquietanti di allora: Bruno Barilli. Una nuova edizione del lavoro valse al suo autore un “Prix Italia” nel 1956.

Alla fine del 1941 vi fu una interruzione nella sua attività di critico dovuta alla guerra, ma i suoi articoli continuarono a comparire sporadicamente sul quotidiano fiorentino fino al “Maggio Musicale” del 1944. Dall’ottobre del 1945 riprese nuovamente il posto di critico militante, questa volta alla “Nazione del Popolo”, l’organo del Comitato di Liberazione Nazionale. Passò quindi al “Mattino dell’Italia centrale”, ma già alla fine dell’ottobre 1947 si dimise, ritenendo ormai conclusa questa esperienza della sua vita. Il “compositore” aveva defenestrato il “critico”. Lo scrivere “parole”, oltre che “musica”, rimase comunque una costante caratteristica di Bucchi. Tra i suoi saggi di maggior rilievo si ricordano: l’Orfeo di Claudio Monteverdi (1949) e Seraphita (“La nuova musica e l’alternativa”, 1961).

L’attività compositiva di Valentino Bucchi si è articolata nei registri più vari della comunicazione musicale. Ritenuto da molti un “isolato” poiché sfuggiva ad ogni catalogazione di corrente, venne poi definito da una critica più attenta come un musicista “libero”. Fu Roman Vlad, che, in occasione di un concerto pubblico alla Rai di Roma nel 1972, in cui fu proposto un trittico solistico del compositore fiorentino risalente agli anni 1969-71 (Concerto per clarinetto solo, le Lettres de la religieuse portugaise per voce sola e Ison per violoncello solo), annotava: “Si tratta di musiche che testimoniano tutte, in un modo o nell’altro, di quella esigenza di libertà che informa l’attività di Bucchi fin dai suoi esordi. Libertà nel duplice senso: di premessa etica e fine dell’esperienza umana, che si manifesta nella sua creatività e libertà da ogni tipo di conformismo estetico di retroguardia o di avanguardia che sia. Libertà che si traduce, tra l’altro, in una totale mancanza di preclusioni, sia nei confronti di mezzi discorsivi tradizionali, sia nei riguardi dei più recenti procedimenti stilistici, di scrittura e di tecnica strumentale”. Bucchi rimase gelosamente fedele al proprio mondo fantastico, venato di suggestioni letterarie, contrario a qualsiasi diaframma fra arte e pubblico, conscio della necessità di instaurare un colloquio sempre aperto con l’ascoltatore, come dimostrano vari suoi lavori: il felicissimo Concerto lirico per violino e archi del 1958, ad esempio, aveva superato dopo sette anni la millesima esecuzione. Sentì perentorio il bisogno di “informazione” che considerava un “dovere” che lo rendesse compartecipe della vita culturale del suo tempo. La sua musica è quindi pure “ricerca”. Ogni pezzo -era solito dire- deve essere anche la soluzione di un problema. Questa ricerca e una istintiva e razionale curiosità lo hanno accompagnato in tutto il suo cammino ed ha seguito senza deviazioni la sua traiettoria. Non ebbe timore di avvalersi anche delle tecniche più avanzate per soddisfare la sua ansia di espressione ad ogni costo e di lavoro ben fatto. L’ultima produzione, dal 1969 in poi, vede ulteriormente arricchita la già estesa gamma di procedimenti tecnici compositivi. I cardini di questa rinnovata concezione musicale sono: un particolare tessuto ritmico, basato esclusivamente sul kronos protos (tempo primo) che costituisce l’unità di misura, e sulle sue libere associazioni; l’uso sistematico di microintervalli, resi percepibili e apprezzabili dalla coesistenza di un suono fisso (ison) che consente la loro esatta individuazione: la presenza di ogni sorta di arditezze per la voce e gli strumenti, sempre però meticolosamente precisati nella scrittura e, soprattutto, “il desiderio di una ricerca espressiva assoluta, svincolata da ogni altro problema di rapporti”, come affermava lo stesso Bucchi nel presentare le Lettres de la religueuse portugaise , in occasione di una esecuzione durante il XXXIV Festival di Venezia nel 1971. Fa parte di questa individuazione di un sistema organico di microintervalli equabili un particolare tipo di chitarra quartitonale, che per primo aveva ideato e fatto realizzare, con la collaborazione del chitarrista Carlo Carfagna, per la quale stava scrivendo, sino al momento della morte (Roma, 8 maggio 1976) un metodo di cui sono rimaste solo poche pagine ancora inedite.

La musica di Bucchi è stata sempre controllata, meditata, essenziale. Il culto della concisione fonica lo ha portato ad evitare in genere la grande orchestra. La sua concezione a circoli chiusi della struttura musicale lo ha spinto spesso a comporre nello spirito del rondò o nelle brevi dimensioni del concerto grosso. I timbri trasparentissimi, gli impasti di sonorità prevalentemente scuri, certe caratteristiche predominanti, soprattutto nella struttura degli intervalli e nel loro disporsi nello spazio sonoro, sono comuni al linguaggio più antico e a quello più recente, sia nella difficile semplicità di certa sua musica “in grandissima parte a due voci, non di rado a una voce sola” (Fedele D’Amico), sia nella struttura notevolmente complessa dei suoi ultimi lavori.

Valentino Bucchi offre anche interesse per la sua posizione libertaria e anticonformista di estroso “laico della musica”. In una intervista televisiva nell’aprile 1976, a pochi giorni dalla sua scomparsa, sintetizzava così la sua posizione ideologica ed estetica: “Sono un non-violento, un non-competitivo nella vita e nell’arte. Del resto sono vissuto molti anni a Perugia, dove la tecnica efficacissima della non violenza ha avuto la sua affermazione teorica più avanzata. Combattiamo quindi anche nella musica la violenza dell’industria e del potere politico che impongono valori e successi prefabbricati, sostituendo fra l’altro alla difficile cultura la facile informazione”. E nella biografia bucchiana non mancano testimonianze artistiche di lotte civili: fra queste una singolare “Battaglia” per ottoni, timpani e tamburo, ispirata al liutista Donino Garsi, composta appositamente per inaugurare e concludere un “concerto-protesta” in Piazza della Repubblica a Perugia, che docenti ed allievi del Conservatorio di Musica “Morlacchi” (direttore del Conservatorio era da anni il compositore fiorentino) attuarono il 23 maggio 1973 per la definitiva statizzazione del loro istituto e per la mancata promozione della musica in Umbria.

Della formazione di Bucchi, vissuto negli anni giovanili, come abbiamo accennato, più tra letterati che tra musicisti, i riflessi si riscontrano anche nella sua produzione musicale. I Cori della pietà morta (1949-50) per coro misto e orchestra, su versi tratti da “Foglio di via” di Franco Fortini (l’antico compagno di studi ginnasiali e liceali), presentati da Scherchen al “Maggio Musicale Fiorentino” del 1950, costituiscono una tappa fondamentale nella produzione dell’autore, ma anche uno dei primi esempi -e tra i più significativi- della letteratura musicale della Resistenza. Ne rievocano con pathos profondo alcuni tragici episodi in un’atmosfera tesa, spasmodica, ottenuta con austera semplicità di mezzi. Rappresentava una espressione genuina di quell’impegno morale che l’autore considerava compito essenziale del compositore. Un impegno che ha trovato poi uno sbocco commosso nel Colloquio corale (1972) per recitante, voce solista, coro misto e orchestra, dedicato alla memoria di Aldo Capitini, l’ideatore delle prime marce della pace, apostolo della non violenza. Un recitante scandisce delle frasi tratte da La compresenza dei morti e dei viventi” , il testamento spirituale del filosofo umbro; la delirante, appassionata voce del soprano sottolinea, in una impervia linea di canto, i momenti più commossi della poesia capitiniana (un sapiente collage di versi tratti dal volume “Colloquio corale”). Un coro intona antiche invocazioni greche alla notte e alla quiete, avvolgendo, in una dimensione di mistero e di magia, le voci del soprano e del recitante; l’orchestra, infine ridotta all’essenziale, gioca su frammenti solistici ben concatenati che nella loro diversa suggestione timbrica rendono ancor più rarefatta l’atmosfera del brano. Concepiti ad oltre 20 anni di distanza l’uno dall’altro, i Cori della pietà morta e il Colloquio corale costituiscono idealmente l’ordito di una stessa trama e sono l’espressione più diretta di una concezione dialetticamente drammatica della vita.

In contrapposizione a questa visione profondamente accorata della realtà, il teatro bucchiano, del tutto sui generis, è essenzialmente ironico, tendente progressivamente al grottesco. Cerca di realizzarsi -se si eccettua il Contrabbasso (1954), la sola opera in musica, nel vero senso della parola- al di fuori degli schemi tradizionali. Un iter che inizia con il giovanile Giuoco del barone (un atto, testo di Alessandro Parronchi, risalente agli anni 1937-39, prima rappresentazione Firenze 20 dicembre 1939, considerato all’epoca in cui venne ideato un lavoro “sperimentale”) e perviene alle sue estreme conseguenze con l’amarissimo Coccodrillo (4 atti, 1969-70, libretto di Bucchi e di Mauro Pezzati), documento della presa di coscienza della posizione dell’uomo nella società contemporanea, che tanti contrasti e polemiche ha suscitato nelle sue rappresentazioni di Firenze, Roma, Bologna. Un singolarissimo lavoro, quest’ultimo, che propone una sintesi di vari elementi liberi da una gerarchia di valori predeterminata. Un’ampia gamma di possibilità tecniche viene articolata senza soluzione di continuità: prosa, parlato musicale, canto, cori, brani strumentali e musica registrata. Sulla scena: azione parlata, cantata, danzata, con interventi di sequenze mimate e filmate. È certo che il Coccodrillo -più adatto evidentemente ad essere recepito in un ambiente che non sia quello dei tradizionali teatri d’opera, ancora tutori del “bel canto”, accusa “ricevuta” -come scriveva Luciano Alberti- di tanti e tanti messaggi -o comunque dati- della situazione musicale teatrale di oggi. Messaggi e dati che vanno oltre l’ambito vasto della moderna e antica retorica dei generi musicali e si appuntano al livello specifico del linguaggio”. Una versione oratoriale del lavoro (Torino, Auditorium della Rai, 10 novembre 1973), riportato dall’autore -che ne curò direttamente la regia- sui propri obiettivi di comunicazione, ottenne un “ottimo successo” (Massimo Mila).

Più vicini alla tradizione sono il grottesco in un atto (prima rappresentazione Maggio Musicale Fiorentino, 20 giugno 1954) Il Contrabbasso, testo di Mario Mattolini e Mauro Pezzati e il balletto Mirandolina (prima al Teatro dell’Opera di Roma, 12 marzo 1957, ideato da Aurelio Milloss che ne curò anche la coreografia). In occasione di una ripresa di Mirandolina al Teatro La Fenice di Venezia (Mirandolina, Carla Fracci) il 26 giugno 1974, Bucchi scriveva “I due lavori costituiscono un dittico ideale… Il contrabbasso è un balletto cantato, in cui ogni movimento dei vari personaggi è musicalmente mimato ed ogni scena proposta attraverso il gesto del cantante… Mirandolina è un’opera danzata, in cui le situazioni e i discorsi dei personaggi si sciolgono senza residuo in un racconto mimato”.

Anche la deliziosa cantafavola Una notte in Paradiso (1959-60), testo di Luigi Bazzoni, tutta nutrita di un’arcaica tematica popolare, vera o inventata, è un unicum nel suo genere. Un tipo di spettacolo in cui musica, parlato, mimica si fondono tra loro, non in episodi successivi e autonomi, ma in uno stretto contesto in cui appare difficile scindere i vari elementi. Ne risulta una rappresentazione singolare, che rompe decisamente con i cliché cristallizzati dello spettacolo tradizionale, adottando una particolare tecnica di “sequenza” che permette di cogliere i punti essenziali dell’azione, collegandoli fra loro senza preoccupazione di luogo, di tempo e di durata. Un lavoro di questo genere -creato del resto originalmente per la radio- doveva di necessità essere articolato in “numeri”: voci di attori e commenti del coro anticipano l’azione, la riportano indietro, la rallentano, la fanno girare vorticosamente, in modo da annullare comunque e sempre la dimensione “tempo”.

Ultimo traguardo nel campo del teatro avrebbe dovuto essere il Tumulto dei Ciompi commissionato dal Teatro Comunale di Firenze per il “Maggio Musicale Fiorentino” del 1972. Uno spettacolo all’aperto previsto in una piazza su testo ricavato dalle cronache del movimento popolare del Trecento fiorentino di Massimo Dursi con musiche di Valentino Bucchi, ispirate ugualmente alle fonti storiche dell’epoca. All’ultimo momento -si era quasi all’inizio delle prove- lo spettacolo non ebbe più luogo. Quali le motivazioni reali, al di là di quelle ufficiali “difficoltà organizzative e finanziarie”? Grazie alla sapiente e certosina revisione musicale del compositore Fernando Sulpizi, basata su materiale di archivio della Fondazione, il Tumulto dei Ciompi è stato pubblicato a stampa nel 1996 e offerto, anche nell’anno del Giubileo, a tutti gli Enti Lirici italiani come opera mai rappresentata che fa serata, ma la proposta non ha avuto alcun riscontro. Perché? Se si guarda poi a Bucchi come trascrittore di antichi testi, peraltro liberamente rivissuti, va notato che le sue scelte si sono rivolte unicamente agli albori della moderna civiltà musicale teatrale, a stadi diversi. Li Gieus de Robin et de Marion di Adam de La Halle del Duecento francese (1951-52), le Laudes Evangelii, mistero coreografico elaborato nei modi di una sacra rappresentazione trecentesca italiana, presentato con la coreografia di Léonide Massine alla Sagra Musicale Umbra del 20 settembre 1952, filmate poi integralmente per l'”Associated Redifussion” e apparse sugli schermi televisivi di tutto il mondo, l’Orfeo di Monteverdi (Milano, Auditorium della Rai, 29 aprile 1967), realizzazione scenica della Televisione italiana, regia di Raymund Rouleau, 13 gennaio 1968).

Non vanno poi dimenticate, anche se esperienze abbastanza presto concluse, anche se risultate tutt’altro che negative le musiche di scena (tra le più significative quelle per la versione radiofonica del Faust di Goethe,Rai, III programma, 1953) e alcune colonne sonore tra cui Il cielo è rosso (1950), Febbre di vivere, nastro d’argento per il 1953 per le musiche, Banditi a Orgosolo (1961).

I lavori strumentali, da camera e per orchestra sono altrettanto caratterizzati: dalle Quattro liriche per canto e pianoforte (1935-40) su testi di Verlaine, Palazzeschi, Noventa, dall’antica Sonatina per pianoforte (1938) che fece definire il suo autore come “ermetico” della musica (Massimo Mila), sino al Vocalizzo nel modo dei fiori, per una voce e dieci strumenti, presentato alla XXXII settimana musicale senese il 19 agosto 1975. Ne ricordiamo alcuni, rinviando poi all’elenco delle composizioni edite di Bucchi, o ad altre analisi particolareggiate che in gran parte si trovano nelle pubblicazioni del Premio Valentino Bucchi, un periodico che accompagna dal 1981 la vita della Associazione Musicale prima e della Fondazione poi intitolata a Valentino Bucchi: i Cinque Madrigali La dolce pena per una voce e 9 strumenti su versi del Poliziano, presentati il 21 giugno 1946 al IX Festival internazionale di musica di Venezia; la cantata per voce e orchestra il Pianto delle creature, la cui prima ebbe luogo alla Sala Bianca di Palazzo Pitti a Firenze il 10 aprile 1947, solista Fedora Barbieri; la Ballata del Silenzio, il primo lavoro esclusivamente orchestrale liberamente ispirato ad un frammento poetico di Edgar Poe, una novità del XIV Festival di Venezia (24 settembre 1961); il Concerto in rondò per pianoforte e orchestra, in un unico tempo, alla ribalta del XX Festival di Venezia il 21 settembre 1957, pianista Vera Franceschi, ripreso poi al Teatro Comunale di Firenze il 10 aprile 1958 (direttore Savallisch, pianista Gino Gorini). Il mondo degli archi ha costituito sicuramente un punto di riferimento per il compositore e i risultati raggiunti sono stati tra i più felici: il Quartetto, commissionato nel 1956 dal Quartetto italiano ebbe la sua prima esecuzione a New York il 17 gennaio 1957 e venne ripreso più volte con successo da questa prestigiosa formazione nelle sue tournées negli Stati Uniti e in molte nazioni europee. Tra le composizioni di più ampio respiro e più impegnative dell’autore, esso palesa una matura assimilazione delle possibilità espressive degli strumenti ad arco e rifugge da ogni formalismo e da ogni tentazione di “musica pura”. I titoli stessi dei quattro tempi: Lamento, Girotondo, Notturno, Epilogo spingono a ritrovare nel testo sonoro una carica allusiva che anima le pagine di misteriose presenze umane:i quattro strumenti assumono nel dialogo una loro spiccata personalità su uno sfondo di drammatica contemplazione delle voci degli uomini e della natura. È del 1958 il Concerto lirico per violino e archi, creato in pochissimo tempo, di una essenzialità esemplare, imperniato su un costante evolversi della linea solistica del violino, lanciato in una serie di ampi intervalli, di intensa suggestione; consta di un solo tempo -come il successivo Concerto grottesco per contrabbasso e archi del 1967- ma si articola in vari movimenti, quasi una ideale forma di rondò a sette parti, il cui nucleo centrale è costituito da una ingegnosissima cadenza. Il già affermatissimo complesso dei “Musici” (solista Roberto Michelucci) ha sicuramente contribuito al successo di questa opera, inserita in molte loro tournées in Italia e all’estero. Nel 1963 Bucchi nella Fantasia per orchestra d’archi offre una sintesi degli ultimi 3 tempi del Quartetto . Nel Concerto grottesco del 1967 per contrabbasso e archi (e una nota di xilofono) già citato, lo strumento solista viene sperimentato in tutti i suoi potenziali registri, da quello più grave a quello più etereo degli armonici. In Ison per violoncello solo, del 1971, nato in stretta collaborazione con Amedeo Baldovino, che ne è stato anche il primo interprete, la tecnica dei microintervalli, ‘controllati’ da una nota di riferimento, è usata sistematicamente; microintervalli adottati anche in Un incipit per archi (1972), resi chiaramente percepibili grazie alla presenza di un suono fisso, l’ison . Nel 1973 Bucchi scriveva il Piccolo concerto per ottavino o/ e flauto e archi, in un solo movimento, costruito a pannelli, articolato in brevi episodi di intonazione assai diversa: corrisponde ad un’altra tendenza dell’autore, quella di tipizzare strumenti in apparenza meno idonei a comparire in veste solistica. Alla predilezione per il contrabbasso, estrinsecatasi anche attraverso il Concerto grottesco del 1967 fa qui da “pendant” l’attenzione meticolosa e perspicace verso il “piccolo”. Quel “piccolo” che costituisce anche un riferimento autobiografico, lì dove, in un appunto manoscritto dell’autore su un programma della prima esecuzione (2 novembre 1973, Teatro Comunale di Firenze, Orchestra del Maggio diretta da Piero Bellugi, solista l’eccezionale ottavinista Roberto Fabbriciani) si legge: “una voce libera, piccola, acuta che subisce la violenza dell’orchestra nel Tutti e poi riesce ad avere l’ultima parola alla conclusione”. Nell’agosto del 1974 Bucchi termina il Concerto di Concerti per archi (con violino, viola, violoncello e contrabbasso obbligati). Il lavoro ha all’incirca la durata di un “concerto grosso”. Consta di alcuni microconcerti affidati a strumenti a solo o a combinazioni solistiche, con l’alternanza di ritornelli eseguiti da tutti gli archi che concludono la composizione con un epilogo. Infine è del 1976, il lavoro, ultimato e revisionato da Fernando Sulpizi, Soliloquios, monodramma per viola sola, l’ultima opera di Bucchi in assoluto. Si tratta di un dialogo fra un attore e il suo registratore che avrebbe dovuto costituire la parte centrale di un trittico destinato allo schermo televisivo, il cui testo è una sorta di collage di scene e di battute tratte ed elaborate dal radiodramma di Mauro Pezzati, La ricerca d’Ippolito. Nasce quindi una drammatica contrapposizione di due voci diverse appartenenti allo stesso individuo. Che Bucchi avesse una predilezione per la viola è dimostrato in tutto l’arco della sua produzione, visto che sostituisce spesso il violino (vedi ad esempio le Laudes Evangelii, Li gieus de Robin et de Marion , l’Orfeo di Monteverdi, o Il Coccodrillo) . Inoltre l’esigenza particolarmente evidente nel suo ultimo periodo compositivo di approfondire le possibilità tecnico-espressive dei singoli strumenti convinse forse il compositore a realizzare quell’ ultima enigmatica opera ove per la distribuzione del materiale sonoro utilizza da uno a quattro pentagrammi. Tra le altre composizioni da menzionare il Racconto Siciliano (1955), balletto originale per due pianoforti (1955) da una idea di Luchino Visconti; un minuscolo concerto per pianoforte Le petit prince , ispirato a Saint-Exupéry, tutto sulle cinque dita, adatto all’esecuzione di bambini: si tratta di cinque piccoli pezzi che si succedono senza soluzione di continuità, e, sempre per pianoforte; i Fogli d’Album (1957-1973).

Direttore artistico e consulente di Accademie ed Enti Lirici (Accademia Filarmonica Romana 1958-60, Teatro Comunale di Bologna 1963-67, Accademia Chigiana di Siena, docente dal 1945 nei Conservatori di Firenze e di Venezia, ha diretto il Conservatorio di Perugia dal 1957 al settembre 1974, per passare poi alla direzione del Conservatorio Fiorentino dal 1974 sino alla sua scomparsa.

E a concludere questo sintetico ritratto di Valentino Bucchi ci pare significativo quanto egli stesso scriveva nel 1970 “penso che non esista più nessuna tecnica compositiva autosufficiente ed esclusiva, né tradizionale, né d’avanguardia; tutte le più diverse tecniche atte ad afferrare il reale, a comprenderlo e a giudicarlo, possono essere impiegate; il nostro compito è quello di un recupero di valori che permetta un discorso completamente rinnovato; in tale discorso il compositore può essere del tutto libero; questo essere libero, questo ricominciare da capo, rappresenta uno degli aspetti positivi del momento musicale contemporaneo”.

Vai a tutti gli eventi >>>

1-20 di 21

Carica altri