0%
SZ Sugar

Back

Castiglioni, Niccolò
Prev Next

AUTOBIOGRAFIA
(Dal volume di Renzo Cresti, Il linguaggio musicale di Niccolò Castiglioni, Milano, Miano Editore, 1992, per gentile concessione dell’autore) 

Sono nato a Milano nel 1932. Mi sono diplomato in pianoforte nel 1952, come privatista, e in composizione nel 1953, dopo aver studiato come interno al Conservatorio di Milano.
Detto questo, è necessario che precisi qualche cosa circa il mio studio del pianoforte. Ho cominciato a metter le mani su questo strumento a 7 anni. La mia prima professoressa di pianoforte è morta nel 1989 all’età di 99 anni. Era viennese, sposata ad un dalmata di nome italiano: Zovetti. Si ricordava benissimo di aver visto e ascoltato dirigere Gustav Mahler. Suo marito era un eccellente pittore, tipico ancora delle estreme propaggini dell’età di Gustav Klimt. Suoi quadri sono esposti anche a Londra. Aveva inventato una tecnica speciale per dipingere: mi sembra che immergesse il foglio nell’acqua e ivi vi lasciava scorrere i colori. Il suo gusto era tipicamente viennese. Nei suoi dipinti prediligeva spesso soggetti simbolici o addirittura mistici. Sua moglie, la mia maestra, era un’eccellente musicista, che tuttavia le preoccupazioni della vita quotidiana non avevano lasciato perfezionarsi.

Più tardi, durante la guerra, l’insegnamento del pianoforte proseguì, sino al diploma, con le sorelle Gemma e Lidia Kirpitscheff Zambelli, molto conosciute a Milano come didatte. Erano russe, fuggite dalla Russia al tempo di Stalin, perché figlie di un italiano, e Stalin aveva proibito a tutti gli stranieri di dimorare nell’Unione Sovietica.

lL studio della composizione fu tutt’altro. Mi sono diplomato nel 1953 sotto la guida del simpatico Franco Margola, ma prima avevo ricevuto lezioni da Ghedini. Allora il Conservatorio era assai diverso da oggi: l’aria era assai più sana e meno disordinata. Di quegli anni di studio conservo un ottimo ricordo, tant’è vero che un mio insegnante di allora, Luciano Tomelleri, è diventato più tardi il mio migliore amico. Non passa una sola giornata che non ci telefoniamo. Ciò che ci unisce è un grande amore per l’ordine (qualità che considero fondamentale per l’arte della musica), per l’arte (soprattutto pittorica) antica, per la natura, per la montagna, per l’Alto Adige. Devo a lui la conoscenza di un meraviglioso posto dell’Alto Adige, il villaggio di Tires ai piedi del Catinaccio, non ancora manomesso dalla corruzione turistica.
Come si vede i miei titoli di studio sono soltanto musicali. Molti tuttavia (non so se abbiano ragione) mi considerano una persona colta. Probabilmente devo molto della mia cultura a mio padre, morto nel 1968; lui era coltissimo davvero, sapeva ottimamente persino il russo; appassionato di filosofia, era seguace del filosofo francese Alain, l’amico fedele di Paul Valéry. Forse è dovuto a questo se ad un certo momento ho preso una specie di “cotta filosofica”. Negli anni intorno al 1958 non facevo altro che leggere di filosofia. Soprattutto mi avvincevano i libri di storia di Eugenio Garin, il noto studioso di Firenze. I suoi studi sul platonismo medievale, che io alternavo ad altri volumi di Gilson o di Leclerque (“L’amour des lettres et le désir de Dieu” soprattutto), mi affascinavano. Questo grande amore per il Medioevo filosofico lo conservo tuttora, e anni fa, quando percorrevo in lungo e in largo la Valle di Tires con ogni sorta di passeggiate, mi pareva che dal fondo del torrente, che sussurrava musicalmente, meraviglioso nel silenzio dei boschi e dei gioghi montani, cantasse e salisse dal fondovalle (come una esalazione o una nebbia arcana) la voce dei grandi mistici del Medioevo: Sant’Anselmo, San Bonaventura, Enrico Suso, San Bernardo, etc.

Questa attrazione per i mistici non è più venuta meno e una delle mie ultime composizioni, “CantusPlanus“, eseguita la scorsa estate a Ginevra, si basa su testi tratti dal “Cherubinischer Wandersmann ” del secentesco Angelus Silesius, che prosegue in piena epoca barocca il filone della mistica renana che faceva capo a Tauler.

Come compositore devo risalire ancora agli anni del Conservatorio per farmi il ritratto: allora ero intimamente legato a Paolo Castaldi, spirito bizzarro ma intelligente ed acuto. Ci accomunava una imperterrita fede strawinskyana; di questa fede è espressione quella che considero la mia op. 1 e cioè il Concertino per la Notte di Natale, composto nel 1952.

Più tardi ci fu un crescente interesse per la dodecafonia e anche per l’engagement politico (alla Nono) del fare musicale: nacque così una Sinfonia n. 1, che recava come motto alcuni versi di Bertold Brecht e che terminava con un’aria intonata dal soprano su una poesia di Friedrich Nietzsche. E’ una composizione molto tumultuosa, che potrebbe far pensare a Zemlinsky.

Più tardi il mio stile si interiorizzò e nacquero così gli Impromptus 1?4 per orchestra (composti nell’inverno 1957-58). Allora frequentavo molto Luciano Berio (era il tempo del massimo fervore attorno allo Studio di Fonologia). La sua influenza su di me fu notevole: abbandono dell’engagement politico, spostamento dell’interesse musicale su posizioni decisamente post-weberniane, come Avanguardia. Frutto di questa svolta fu un mio saggio giovanile: il volumetto, edito dalla Ricordi, intitolato “Il linguaggio musicale dal Rinascimento ad oggi”. Questo volume risente delle mie letture filosofiche di quel tempo e molto spesso l’impianto filosofico del discorso è assai maldestro, tutto preso da smanie di sistemazioni gnoseologiche che sospingono lo studio addirittura a livello metafisico e che tradiscono sovente mancanza di buon senso. Tuttavia positivo è, in questo volumetto, l’assunto di scrivere una storia del linguaggio musicale (anche se – ripeto – questo assunto è risolto solo in parte). Così al residuo romanticismo della poetica dell’engagement subentrava un più lucido attendere all’obiettività artigianale del linguaggio nelle sue articolazioni tecniche.

Darmstadt era allora al culmine del suo splendore: il 1958 è stato l’anno di John Cage (per la prima volta a Darmstadt). Io ottenni un notevole successo con una minuscola pagina pianistica Inizio dimovimento, che suonai io stesso all’interno del seminario tenuto da Luigi Nono e da Bruno Maderna. L’anno successivo presentai Cangianti e Nono pronunziò la celebre conferenza che lo portò su posizioni furiosamente polemiche negli anni successivi. Ecco cosa ne penso: certamente il modo con cui Luigi Nono aveva impostato la sua polemica era inutilmente violento, e questo finiva per dargli la zappa sui piedi. Ciò non toglie che egli avesse le sue ragioni, perché è indubbio che l’Avanguardia, all’epoca della “guerra fredda” e del neocapitalismo, rischiava, dietro l’ambizione personale dei suoi belligeranti, di inaridirsi sul piano di un accademismo puerile o di un edonismo consumistico, sintomatico di una, ahimé quasi incredibile, dose di stupidità.

Composi nel 1959 Aprèslude per grande orchestra che ebbe notevole successo a Colonia nel 1960. Qui riaffiora il mondo tardoromantico del primo Webern (l’Avanguardia del primo anteguerra, insomma). Ma, successivamente, sentii il bisogno di comporre qualcosa di tendenza opposta: non più il monologo sul subconscio di un espressionismo viennese latente, ma il chiaro nitore di Rondels, con i suoi colori intenzionalmente rinfrescanti e per così dire mattutini.

Tra le composizioni di quest’epoca a cui tengo di più devo citare Gyro, su testo biblico (Libro dei Proverbi), per coro a 32 voci e 9 strumenti (scritto su commissione di Radio Stoccolma). A questa composizione sono particolarmente affezionato perché costituisce la mia prima importante musica di carattere religioso. Il testo di carattere sapienzale mi faceva risalire alle fonti dei miei amori filosofici, particolarmente al sapienzialismo di San Bonaventura da Bagnoregio.

Dal 1966 al 1970 fui negli Stati Uniti. Insegnai in tre Università di piccole località. Il clima universitario americano mi affascinò profondamente e mi commosse il tono assai amichevole degli americani nei miei riguardi. Da allora in poi ho sempre sentito per gli americani una sincera simpatia: parlo qui degli americani degli ambienti artistici e universitari.

Ritornato in Italia, scrissi Inverno in ver e Le favole di Esopo che il mio amico Luciano Tomelleri considera i miei capolavori. Nel frattempo il tono arrivistico dell’Avanguardia degli anni Sessanta si era alquanto calmato. Ciò permetteva di lavorare con meno fanatismo e con più ordine.

Tra le composizioni recenti alle quali tengo di più ricordo il concerto per oboe e orchestra intitolato (griegghianamente) Morceaux Lyriques, il Geistliches Lied del 1983, il Mottetto per soprano e orchestra del 1987, Hymne per coro a dodici voci (dell’inverno 1988?89), oltre al già citato Cantus Planus, lavori tutti, ad eccezione del concerto per oboe, di ispirazione religiosa.

Geistliches Lied è, dicevo, del 1983. L’anno precedente fu presentato al Festival di Venezia un mio lungo lavoro per Solo, Coro e orchestra intitolato Sacro Concerto. Il fatto è questo: era l’anno del centenario strawinskyano. A me dava enormemente fastidio il tono sfrontatamente arrivistico dell’Avanguardia con la sua conformistica idolatria strawinskyana. Per una forma di silenziosa protesta contro tutto ciò, decisi di rendere omaggio a Strawinsky con la lingua del suo più autorevole avversario, Arnold Schoenberg (che l’Avanguardia aveva disprezzato con tracotanta frettolosità). Questo è il motivo per cui il Sacro Concerto si basa sul testo di un Salmo in lingua ebraica. Io sentivo il bisogno di cantare in ebraico perché l’ebraico era la lingua non di Strawinsky ma di Arnold Schoenberg.

L’anno successivo (1983) era il centenario weberniano. Allora mi tolsi la maschera e cantai una poesiola che avevo trovato su una cartolina illustrata raffigurante la statua della Madonna del Santuario di Trens (sotto Vipiteno), con uno slancio e un entusiasmo interamente libero; dovevo mettere di fronte a me stesso una cosa: contrariamente alle opinioni espresse da Pierre Boulez e da Henri Pousseur doveva essere chiaro che il Webern vero non aveva niente a che fare con Strawinsky.

Niccolò Castiglioni

 

Vai a tutti gli eventi >>>

12/10/2024 – GYMEL – per flauto e pianoforte

Descrizione: fl. Daniela Cima, pf. Sonia Candellone                      

1-20 di 50

Prev Next

AUTOBIOGRAFIA
(Dal volume di Renzo Cresti, Il linguaggio musicale di Niccolò Castiglioni, Milano, Miano Editore, 1992, per gentile concessione dell’autore) 

Sono nato a Milano nel 1932. Mi sono diplomato in pianoforte nel 1952, come privatista, e in composizione nel 1953, dopo aver studiato come interno al Conservatorio di Milano.
Detto questo, è necessario che precisi qualche cosa circa il mio studio del pianoforte. Ho cominciato a metter le mani su questo strumento a 7 anni. La mia prima professoressa di pianoforte è morta nel 1989 all’età di 99 anni. Era viennese, sposata ad un dalmata di nome italiano: Zovetti. Si ricordava benissimo di aver visto e ascoltato dirigere Gustav Mahler. Suo marito era un eccellente pittore, tipico ancora delle estreme propaggini dell’età di Gustav Klimt. Suoi quadri sono esposti anche a Londra. Aveva inventato una tecnica speciale per dipingere: mi sembra che immergesse il foglio nell’acqua e ivi vi lasciava scorrere i colori. Il suo gusto era tipicamente viennese. Nei suoi dipinti prediligeva spesso soggetti simbolici o addirittura mistici. Sua moglie, la mia maestra, era un’eccellente musicista, che tuttavia le preoccupazioni della vita quotidiana non avevano lasciato perfezionarsi.

Più tardi, durante la guerra, l’insegnamento del pianoforte proseguì, sino al diploma, con le sorelle Gemma e Lidia Kirpitscheff Zambelli, molto conosciute a Milano come didatte. Erano russe, fuggite dalla Russia al tempo di Stalin, perché figlie di un italiano, e Stalin aveva proibito a tutti gli stranieri di dimorare nell’Unione Sovietica.

lL studio della composizione fu tutt’altro. Mi sono diplomato nel 1953 sotto la guida del simpatico Franco Margola, ma prima avevo ricevuto lezioni da Ghedini. Allora il Conservatorio era assai diverso da oggi: l’aria era assai più sana e meno disordinata. Di quegli anni di studio conservo un ottimo ricordo, tant’è vero che un mio insegnante di allora, Luciano Tomelleri, è diventato più tardi il mio migliore amico. Non passa una sola giornata che non ci telefoniamo. Ciò che ci unisce è un grande amore per l’ordine (qualità che considero fondamentale per l’arte della musica), per l’arte (soprattutto pittorica) antica, per la natura, per la montagna, per l’Alto Adige. Devo a lui la conoscenza di un meraviglioso posto dell’Alto Adige, il villaggio di Tires ai piedi del Catinaccio, non ancora manomesso dalla corruzione turistica.
Come si vede i miei titoli di studio sono soltanto musicali. Molti tuttavia (non so se abbiano ragione) mi considerano una persona colta. Probabilmente devo molto della mia cultura a mio padre, morto nel 1968; lui era coltissimo davvero, sapeva ottimamente persino il russo; appassionato di filosofia, era seguace del filosofo francese Alain, l’amico fedele di Paul Valéry. Forse è dovuto a questo se ad un certo momento ho preso una specie di “cotta filosofica”. Negli anni intorno al 1958 non facevo altro che leggere di filosofia. Soprattutto mi avvincevano i libri di storia di Eugenio Garin, il noto studioso di Firenze. I suoi studi sul platonismo medievale, che io alternavo ad altri volumi di Gilson o di Leclerque (“L’amour des lettres et le désir de Dieu” soprattutto), mi affascinavano. Questo grande amore per il Medioevo filosofico lo conservo tuttora, e anni fa, quando percorrevo in lungo e in largo la Valle di Tires con ogni sorta di passeggiate, mi pareva che dal fondo del torrente, che sussurrava musicalmente, meraviglioso nel silenzio dei boschi e dei gioghi montani, cantasse e salisse dal fondovalle (come una esalazione o una nebbia arcana) la voce dei grandi mistici del Medioevo: Sant’Anselmo, San Bonaventura, Enrico Suso, San Bernardo, etc.

Questa attrazione per i mistici non è più venuta meno e una delle mie ultime composizioni, “CantusPlanus“, eseguita la scorsa estate a Ginevra, si basa su testi tratti dal “Cherubinischer Wandersmann ” del secentesco Angelus Silesius, che prosegue in piena epoca barocca il filone della mistica renana che faceva capo a Tauler.

Come compositore devo risalire ancora agli anni del Conservatorio per farmi il ritratto: allora ero intimamente legato a Paolo Castaldi, spirito bizzarro ma intelligente ed acuto. Ci accomunava una imperterrita fede strawinskyana; di questa fede è espressione quella che considero la mia op. 1 e cioè il Concertino per la Notte di Natale, composto nel 1952.

Più tardi ci fu un crescente interesse per la dodecafonia e anche per l’engagement politico (alla Nono) del fare musicale: nacque così una Sinfonia n. 1, che recava come motto alcuni versi di Bertold Brecht e che terminava con un’aria intonata dal soprano su una poesia di Friedrich Nietzsche. E’ una composizione molto tumultuosa, che potrebbe far pensare a Zemlinsky.

Più tardi il mio stile si interiorizzò e nacquero così gli Impromptus 1?4 per orchestra (composti nell’inverno 1957-58). Allora frequentavo molto Luciano Berio (era il tempo del massimo fervore attorno allo Studio di Fonologia). La sua influenza su di me fu notevole: abbandono dell’engagement politico, spostamento dell’interesse musicale su posizioni decisamente post-weberniane, come Avanguardia. Frutto di questa svolta fu un mio saggio giovanile: il volumetto, edito dalla Ricordi, intitolato “Il linguaggio musicale dal Rinascimento ad oggi”. Questo volume risente delle mie letture filosofiche di quel tempo e molto spesso l’impianto filosofico del discorso è assai maldestro, tutto preso da smanie di sistemazioni gnoseologiche che sospingono lo studio addirittura a livello metafisico e che tradiscono sovente mancanza di buon senso. Tuttavia positivo è, in questo volumetto, l’assunto di scrivere una storia del linguaggio musicale (anche se – ripeto – questo assunto è risolto solo in parte). Così al residuo romanticismo della poetica dell’engagement subentrava un più lucido attendere all’obiettività artigianale del linguaggio nelle sue articolazioni tecniche.

Darmstadt era allora al culmine del suo splendore: il 1958 è stato l’anno di John Cage (per la prima volta a Darmstadt). Io ottenni un notevole successo con una minuscola pagina pianistica Inizio dimovimento, che suonai io stesso all’interno del seminario tenuto da Luigi Nono e da Bruno Maderna. L’anno successivo presentai Cangianti e Nono pronunziò la celebre conferenza che lo portò su posizioni furiosamente polemiche negli anni successivi. Ecco cosa ne penso: certamente il modo con cui Luigi Nono aveva impostato la sua polemica era inutilmente violento, e questo finiva per dargli la zappa sui piedi. Ciò non toglie che egli avesse le sue ragioni, perché è indubbio che l’Avanguardia, all’epoca della “guerra fredda” e del neocapitalismo, rischiava, dietro l’ambizione personale dei suoi belligeranti, di inaridirsi sul piano di un accademismo puerile o di un edonismo consumistico, sintomatico di una, ahimé quasi incredibile, dose di stupidità.

Composi nel 1959 Aprèslude per grande orchestra che ebbe notevole successo a Colonia nel 1960. Qui riaffiora il mondo tardoromantico del primo Webern (l’Avanguardia del primo anteguerra, insomma). Ma, successivamente, sentii il bisogno di comporre qualcosa di tendenza opposta: non più il monologo sul subconscio di un espressionismo viennese latente, ma il chiaro nitore di Rondels, con i suoi colori intenzionalmente rinfrescanti e per così dire mattutini.

Tra le composizioni di quest’epoca a cui tengo di più devo citare Gyro, su testo biblico (Libro dei Proverbi), per coro a 32 voci e 9 strumenti (scritto su commissione di Radio Stoccolma). A questa composizione sono particolarmente affezionato perché costituisce la mia prima importante musica di carattere religioso. Il testo di carattere sapienzale mi faceva risalire alle fonti dei miei amori filosofici, particolarmente al sapienzialismo di San Bonaventura da Bagnoregio.

Dal 1966 al 1970 fui negli Stati Uniti. Insegnai in tre Università di piccole località. Il clima universitario americano mi affascinò profondamente e mi commosse il tono assai amichevole degli americani nei miei riguardi. Da allora in poi ho sempre sentito per gli americani una sincera simpatia: parlo qui degli americani degli ambienti artistici e universitari.

Ritornato in Italia, scrissi Inverno in ver e Le favole di Esopo che il mio amico Luciano Tomelleri considera i miei capolavori. Nel frattempo il tono arrivistico dell’Avanguardia degli anni Sessanta si era alquanto calmato. Ciò permetteva di lavorare con meno fanatismo e con più ordine.

Tra le composizioni recenti alle quali tengo di più ricordo il concerto per oboe e orchestra intitolato (griegghianamente) Morceaux Lyriques, il Geistliches Lied del 1983, il Mottetto per soprano e orchestra del 1987, Hymne per coro a dodici voci (dell’inverno 1988?89), oltre al già citato Cantus Planus, lavori tutti, ad eccezione del concerto per oboe, di ispirazione religiosa.

Geistliches Lied è, dicevo, del 1983. L’anno precedente fu presentato al Festival di Venezia un mio lungo lavoro per Solo, Coro e orchestra intitolato Sacro Concerto. Il fatto è questo: era l’anno del centenario strawinskyano. A me dava enormemente fastidio il tono sfrontatamente arrivistico dell’Avanguardia con la sua conformistica idolatria strawinskyana. Per una forma di silenziosa protesta contro tutto ciò, decisi di rendere omaggio a Strawinsky con la lingua del suo più autorevole avversario, Arnold Schoenberg (che l’Avanguardia aveva disprezzato con tracotanta frettolosità). Questo è il motivo per cui il Sacro Concerto si basa sul testo di un Salmo in lingua ebraica. Io sentivo il bisogno di cantare in ebraico perché l’ebraico era la lingua non di Strawinsky ma di Arnold Schoenberg.

L’anno successivo (1983) era il centenario weberniano. Allora mi tolsi la maschera e cantai una poesiola che avevo trovato su una cartolina illustrata raffigurante la statua della Madonna del Santuario di Trens (sotto Vipiteno), con uno slancio e un entusiasmo interamente libero; dovevo mettere di fronte a me stesso una cosa: contrariamente alle opinioni espresse da Pierre Boulez e da Henri Pousseur doveva essere chiaro che il Webern vero non aveva niente a che fare con Strawinsky.

Niccolò Castiglioni

 

Vai a tutti gli eventi >>>

12/10/2024 – GYMEL – per flauto e pianoforte

Descrizione: fl. Daniela Cima, pf. Sonia Candellone                      

1-20 di 50

Carica altri
Castiglioni, Niccolò
Prev Next

AUTOBIOGRAFIA
(Dal volume di Renzo Cresti, Il linguaggio musicale di Niccolò Castiglioni, Milano, Miano Editore, 1992, per gentile concessione dell’autore) 

Sono nato a Milano nel 1932. Mi sono diplomato in pianoforte nel 1952, come privatista, e in composizione nel 1953, dopo aver studiato come interno al Conservatorio di Milano.
Detto questo, è necessario che precisi qualche cosa circa il mio studio del pianoforte. Ho cominciato a metter le mani su questo strumento a 7 anni. La mia prima professoressa di pianoforte è morta nel 1989 all’età di 99 anni. Era viennese, sposata ad un dalmata di nome italiano: Zovetti. Si ricordava benissimo di aver visto e ascoltato dirigere Gustav Mahler. Suo marito era un eccellente pittore, tipico ancora delle estreme propaggini dell’età di Gustav Klimt. Suoi quadri sono esposti anche a Londra. Aveva inventato una tecnica speciale per dipingere: mi sembra che immergesse il foglio nell’acqua e ivi vi lasciava scorrere i colori. Il suo gusto era tipicamente viennese. Nei suoi dipinti prediligeva spesso soggetti simbolici o addirittura mistici. Sua moglie, la mia maestra, era un’eccellente musicista, che tuttavia le preoccupazioni della vita quotidiana non avevano lasciato perfezionarsi.

Più tardi, durante la guerra, l’insegnamento del pianoforte proseguì, sino al diploma, con le sorelle Gemma e Lidia Kirpitscheff Zambelli, molto conosciute a Milano come didatte. Erano russe, fuggite dalla Russia al tempo di Stalin, perché figlie di un italiano, e Stalin aveva proibito a tutti gli stranieri di dimorare nell’Unione Sovietica.

lL studio della composizione fu tutt’altro. Mi sono diplomato nel 1953 sotto la guida del simpatico Franco Margola, ma prima avevo ricevuto lezioni da Ghedini. Allora il Conservatorio era assai diverso da oggi: l’aria era assai più sana e meno disordinata. Di quegli anni di studio conservo un ottimo ricordo, tant’è vero che un mio insegnante di allora, Luciano Tomelleri, è diventato più tardi il mio migliore amico. Non passa una sola giornata che non ci telefoniamo. Ciò che ci unisce è un grande amore per l’ordine (qualità che considero fondamentale per l’arte della musica), per l’arte (soprattutto pittorica) antica, per la natura, per la montagna, per l’Alto Adige. Devo a lui la conoscenza di un meraviglioso posto dell’Alto Adige, il villaggio di Tires ai piedi del Catinaccio, non ancora manomesso dalla corruzione turistica.
Come si vede i miei titoli di studio sono soltanto musicali. Molti tuttavia (non so se abbiano ragione) mi considerano una persona colta. Probabilmente devo molto della mia cultura a mio padre, morto nel 1968; lui era coltissimo davvero, sapeva ottimamente persino il russo; appassionato di filosofia, era seguace del filosofo francese Alain, l’amico fedele di Paul Valéry. Forse è dovuto a questo se ad un certo momento ho preso una specie di “cotta filosofica”. Negli anni intorno al 1958 non facevo altro che leggere di filosofia. Soprattutto mi avvincevano i libri di storia di Eugenio Garin, il noto studioso di Firenze. I suoi studi sul platonismo medievale, che io alternavo ad altri volumi di Gilson o di Leclerque (“L’amour des lettres et le désir de Dieu” soprattutto), mi affascinavano. Questo grande amore per il Medioevo filosofico lo conservo tuttora, e anni fa, quando percorrevo in lungo e in largo la Valle di Tires con ogni sorta di passeggiate, mi pareva che dal fondo del torrente, che sussurrava musicalmente, meraviglioso nel silenzio dei boschi e dei gioghi montani, cantasse e salisse dal fondovalle (come una esalazione o una nebbia arcana) la voce dei grandi mistici del Medioevo: Sant’Anselmo, San Bonaventura, Enrico Suso, San Bernardo, etc.

Questa attrazione per i mistici non è più venuta meno e una delle mie ultime composizioni, “CantusPlanus“, eseguita la scorsa estate a Ginevra, si basa su testi tratti dal “Cherubinischer Wandersmann ” del secentesco Angelus Silesius, che prosegue in piena epoca barocca il filone della mistica renana che faceva capo a Tauler.

Come compositore devo risalire ancora agli anni del Conservatorio per farmi il ritratto: allora ero intimamente legato a Paolo Castaldi, spirito bizzarro ma intelligente ed acuto. Ci accomunava una imperterrita fede strawinskyana; di questa fede è espressione quella che considero la mia op. 1 e cioè il Concertino per la Notte di Natale, composto nel 1952.

Più tardi ci fu un crescente interesse per la dodecafonia e anche per l’engagement politico (alla Nono) del fare musicale: nacque così una Sinfonia n. 1, che recava come motto alcuni versi di Bertold Brecht e che terminava con un’aria intonata dal soprano su una poesia di Friedrich Nietzsche. E’ una composizione molto tumultuosa, che potrebbe far pensare a Zemlinsky.

Più tardi il mio stile si interiorizzò e nacquero così gli Impromptus 1?4 per orchestra (composti nell’inverno 1957-58). Allora frequentavo molto Luciano Berio (era il tempo del massimo fervore attorno allo Studio di Fonologia). La sua influenza su di me fu notevole: abbandono dell’engagement politico, spostamento dell’interesse musicale su posizioni decisamente post-weberniane, come Avanguardia. Frutto di questa svolta fu un mio saggio giovanile: il volumetto, edito dalla Ricordi, intitolato “Il linguaggio musicale dal Rinascimento ad oggi”. Questo volume risente delle mie letture filosofiche di quel tempo e molto spesso l’impianto filosofico del discorso è assai maldestro, tutto preso da smanie di sistemazioni gnoseologiche che sospingono lo studio addirittura a livello metafisico e che tradiscono sovente mancanza di buon senso. Tuttavia positivo è, in questo volumetto, l’assunto di scrivere una storia del linguaggio musicale (anche se – ripeto – questo assunto è risolto solo in parte). Così al residuo romanticismo della poetica dell’engagement subentrava un più lucido attendere all’obiettività artigianale del linguaggio nelle sue articolazioni tecniche.

Darmstadt era allora al culmine del suo splendore: il 1958 è stato l’anno di John Cage (per la prima volta a Darmstadt). Io ottenni un notevole successo con una minuscola pagina pianistica Inizio dimovimento, che suonai io stesso all’interno del seminario tenuto da Luigi Nono e da Bruno Maderna. L’anno successivo presentai Cangianti e Nono pronunziò la celebre conferenza che lo portò su posizioni furiosamente polemiche negli anni successivi. Ecco cosa ne penso: certamente il modo con cui Luigi Nono aveva impostato la sua polemica era inutilmente violento, e questo finiva per dargli la zappa sui piedi. Ciò non toglie che egli avesse le sue ragioni, perché è indubbio che l’Avanguardia, all’epoca della “guerra fredda” e del neocapitalismo, rischiava, dietro l’ambizione personale dei suoi belligeranti, di inaridirsi sul piano di un accademismo puerile o di un edonismo consumistico, sintomatico di una, ahimé quasi incredibile, dose di stupidità.

Composi nel 1959 Aprèslude per grande orchestra che ebbe notevole successo a Colonia nel 1960. Qui riaffiora il mondo tardoromantico del primo Webern (l’Avanguardia del primo anteguerra, insomma). Ma, successivamente, sentii il bisogno di comporre qualcosa di tendenza opposta: non più il monologo sul subconscio di un espressionismo viennese latente, ma il chiaro nitore di Rondels, con i suoi colori intenzionalmente rinfrescanti e per così dire mattutini.

Tra le composizioni di quest’epoca a cui tengo di più devo citare Gyro, su testo biblico (Libro dei Proverbi), per coro a 32 voci e 9 strumenti (scritto su commissione di Radio Stoccolma). A questa composizione sono particolarmente affezionato perché costituisce la mia prima importante musica di carattere religioso. Il testo di carattere sapienzale mi faceva risalire alle fonti dei miei amori filosofici, particolarmente al sapienzialismo di San Bonaventura da Bagnoregio.

Dal 1966 al 1970 fui negli Stati Uniti. Insegnai in tre Università di piccole località. Il clima universitario americano mi affascinò profondamente e mi commosse il tono assai amichevole degli americani nei miei riguardi. Da allora in poi ho sempre sentito per gli americani una sincera simpatia: parlo qui degli americani degli ambienti artistici e universitari.

Ritornato in Italia, scrissi Inverno in ver e Le favole di Esopo che il mio amico Luciano Tomelleri considera i miei capolavori. Nel frattempo il tono arrivistico dell’Avanguardia degli anni Sessanta si era alquanto calmato. Ciò permetteva di lavorare con meno fanatismo e con più ordine.

Tra le composizioni recenti alle quali tengo di più ricordo il concerto per oboe e orchestra intitolato (griegghianamente) Morceaux Lyriques, il Geistliches Lied del 1983, il Mottetto per soprano e orchestra del 1987, Hymne per coro a dodici voci (dell’inverno 1988?89), oltre al già citato Cantus Planus, lavori tutti, ad eccezione del concerto per oboe, di ispirazione religiosa.

Geistliches Lied è, dicevo, del 1983. L’anno precedente fu presentato al Festival di Venezia un mio lungo lavoro per Solo, Coro e orchestra intitolato Sacro Concerto. Il fatto è questo: era l’anno del centenario strawinskyano. A me dava enormemente fastidio il tono sfrontatamente arrivistico dell’Avanguardia con la sua conformistica idolatria strawinskyana. Per una forma di silenziosa protesta contro tutto ciò, decisi di rendere omaggio a Strawinsky con la lingua del suo più autorevole avversario, Arnold Schoenberg (che l’Avanguardia aveva disprezzato con tracotanta frettolosità). Questo è il motivo per cui il Sacro Concerto si basa sul testo di un Salmo in lingua ebraica. Io sentivo il bisogno di cantare in ebraico perché l’ebraico era la lingua non di Strawinsky ma di Arnold Schoenberg.

L’anno successivo (1983) era il centenario weberniano. Allora mi tolsi la maschera e cantai una poesiola che avevo trovato su una cartolina illustrata raffigurante la statua della Madonna del Santuario di Trens (sotto Vipiteno), con uno slancio e un entusiasmo interamente libero; dovevo mettere di fronte a me stesso una cosa: contrariamente alle opinioni espresse da Pierre Boulez e da Henri Pousseur doveva essere chiaro che il Webern vero non aveva niente a che fare con Strawinsky.

Niccolò Castiglioni

 

Vai a tutti gli eventi >>>

12/10/2024 – GYMEL – per flauto e pianoforte

Descrizione: fl. Daniela Cima, pf. Sonia Candellone                      

1-20 di 50

Carica altri